Nel mese di luglio a Roma ho incontrato Griselda Lobo e Jairo Cala, leader storici delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (organizzazione guerrigliera di ispirazione comunista e marxista fondata nel 1964) e oggi membri del direttivo politico di Forza Alternativa Rivoluzionaria del Comune, il partito che ha avuto origine dalle FARC – e di cui mantiene l’acronimo – dopo la firma del trattato di pace del 2016.

Lobo e Cala, rispettivamente senatore della Repubblica e rappresentante alla Camera del Congresso della Colombia, hanno intrapreso un viaggio in Europa per denunciare alle Nazioni Unite il mancato rispetto degli accordi da parte del governo colombiano. Le gravi accuse fanno riferimento anche all’ondata di omicidi avvenuta negli ultimi 3 anni: «sono stati uccisi 134 ex guerriglieri e 33 parenti di ex guerriglieri; 11 sono ancora dispersi – hanno dichiarato i due portavoce – siamo ad un passo da un nuovo genocidio politico in Colombia e chiediamo alla comunità internazionale di sostenerci per evitare che ciò accada». I due ex guerriglieri hanno raccontato il difficile passaggio dalla lotta armata alla battaglia politica.

Quando e perché hai deciso di entrare a far parte delle FARC?
Griselda Lobo (unica donna della delegazione di negoziatori FARC durante i dialoghi esplorativi che hanno avuto luogo a L’Avana ndr): Decisi di unirmi alle FARC quando avevo 17 anni, perché rappresentavano una vita alternativa per noi donne contadine. Ero una normale ragazza che voleva studiare medicina. Nelle FARC ho iniziato un processo di educazione politica ai principi rivoluzionari e un percorso di apprendimento alla geografia, alla matematica, alla scrittura e a tutte le professionalità richieste in un esercito, perché noi eravamo un esercito e avevamo bisogno di dottori, contabili, comunicatori sociali, fornai, autisti…
Jairo Cala: Entrai a far parte della resistenza armata delle FARC 36 anni fa. La mia era una famiglia molto povera, di estrazione contadina, mia madre morì quando ero bambino per mancanza di cure mediche. Quando a 15 anni incontrai i guerriglieri, mi mostrarono un progetto unitario per il Paese e mi sentii rappresentato, per questo motivo decisi di unirmi attivamente alla lotta.

Cosa rappresentano le FARC nell’immaginario del popolo colombiano?
JC: Le FARC rappresentano una storia di resistenza e di lotta, la speranza di un popolo escluso e la possibilità di moralizzare l’attività politica colombiana, permeata dalla corruzione. Forza Alternativa oggi incarna la speranza di costruire un grande movimento che getti le basi di una pace democratica per tutto il Paese.

Lobo e Cala al parlamento europeo

GL: Il governo ha lavorato duramente contro noi rivoluzionari per demonizzarci, stigmatizzandoci. Ora abbiamo il compito di rompere questo paradigma. Stiamo lavorando affinché le persone ci conoscano realmente e sappiano quali erano le vere cause del conflitto nel nostro Paese. Ci sono persone che ci accettano e sanno chi siamo, ma c’è anche una parte della popolazione che non condivide i nostri obiettivi di lotta per costruire una patria migliore.

Com’era la tua vita nella clandestinità?
JC: La nostra vita in clandestinità era piena di privazioni materiali ma al tempo stesso ricca di soddisfazioni politiche e umane. Poter abbracciare la difesa degli interessi di un popolo emarginato, poter attraversare i territori della Colombia e conoscere queste realtà ha riempito i nostri spiriti rivoluzionari e ci ha permesso di intraprendere una lotta per la trasformazione sociale del Paese.

Quando avete capito che era necessaria una transizione dalla guerriglia ad un partito politico? Durante questo processo sono cambiati i vostri obiettivi?
GL: Sin dalla nostra fondazione nel 1964, abbiamo spiegato che eravamo stati costretti a intraprendere la via della lotta armata perché avevano chiuso lo spazio politico. Al tempo stesso abbiamo anche sostenuto che il nostro scopo era trovare una soluzione politica per il Paese e abbiamo iniziato a cercarla fin da quel momento. Nel 1984 il governo di Belisario Betancur si è seduto con le FARC per ascoltare e avviare una trattativa che però non ha raggiunto esiti positivi. Da quel negoziato è nata Unione Patriottica, un movimento politico importante che poi è stato (letteralmente ndr) sterminato. Non ci siamo comunque fermati e abbiamo continuato la ricerca di una soluzione politica. Nel 2011 avevamo raggiunto un punto di stallo in cui nessuna delle due parti aveva vinto; questo ci ha costretto in un certo modo a cercare un tavolo di confronto, il governo di Juan Manuel Santos ha fatto lo stesso e abbiamo accettato di sederci. Anche il popolo ci ha chiesto a gran voce di porre fine al conflitto perché gli orrori della guerra avevano raggiunto dei picchi altissimi. La guerra non lascia nulla, lascia la crisi e mangia tutte le risorse, questo è avvenuto in Colombia. Quindi, la nostra è stata una decisione presa su richiesta delle comunità che desideravano trovare una soluzione politica al conflitto armato e sociale che avevano vissuto. Abbiamo messo fine allo scontro armato, ma abbiamo continuato la lotta politica per raggiungere il potere come partito, insieme ai movimenti e alle organizzazioni sociali. Il nostro obiettivo non è cambiato: la conquista del potere. Con la lotta armata non l’abbiamo raggiunto? Abbiamo cambiato strategia.

Dopo la firma degli accordi di pace sono state riconsegnate tutte le armi? Alcune fonti (Il New York Times ad esempio) sostengono che alcuni guerriglieri abbiano ripreso le armi, è così?
JC: Abbiamo preso un impegno nei confronti del governo nazionale al momento della firma dell’accordo: raggruppare le forze e poi, attraverso la verifica di una commissione delle Nazioni Unite, portare avanti il processo di deposizione delle armi. I nostri guerriglieri, circa 13.200 miliziani, hanno raggiunto i punti di concentrazione e abbandonato le armi, ad eccezione di circa 80 uomini e donne che hanno manifestato una volontà contraria. La situazione è molto complessa, l’87% della nostra popolazione è composta da contadini, il governo nazionale si è impegnato a garantire progetti produttivi, accesso al credito e terreni per quei 13mila colombiani che si sono fatti strada verso la legalità. Ad oggi però, non esiste un solo centimetro di terra per il processo di incorporazione. Ciò mette a repentaglio il processo di pace, minacciandolo fortemente. Pertanto, questo tour per l’Europa ha lo scopo di attirare l’attenzione della comunità europea affinché possa accompagnare i negoziati, chiedendo al governo di rispettare l’accordo.

Secondo gli accordi di pace era prevista la creazione di territori transitori che poi sarebbero stati smobilitati da parte delle FARC. Come si vive oggi nei territori che erano occupati dalle FARC?
GL: Nell’accordo si è convenuto che ci saremmo spostati in determinati territori e, in effetti, lo abbiamo fatto. Come stanno le aree in cui eravamo? Sono state abbandonate e ora sono controllate da gruppi di destra, trafficanti di droga e criminali che si sono insediati lì. L’autorità statale non è stata in grado di raggiungere queste aree e di reintegrarle. Per fare questo non è necessaria la presenza militare ma l’educazione, l’assistenza sanitaria, le strade, i progetti per i contadini. La Colombia è un Paese di oltre 11 milioni di contadini ma questi ultimi non sono stati nemmeno menzionati nel Piano di sviluppo nazionale. Oggi, 55 anni dopo, persistono le stesse cause che hanno originato il conflitto colombiano: la terra, il suo possesso e le enormi disuguaglianze economiche.
JR: Uno dei punti principali degli accordi riguarda la risoluzione dei problemi delle colture illecite su tutto il territorio nazionale. Si stima che 200mila famiglie in Colombia traggano il loro sostentamento dalle coltivazioni di marijuana, coca o papavero. Per questo, con il governo nazionale, abbiamo creato il Programma nazionale per la sostituzione delle colture illegali e 123mila famiglie hanno aderito volontariamente. Il governo doveva garantire un sussidio di circa 10mila dollari, che però non è mai arrivato alla popolazione, costringendo le persone a riprendere le colture illegali. Oggi il governo ha annunciato l’irrorazione aerea con glifosato in tutti i territori di coltivazione e lo sradicamento forzato delle colture. Questo porterà ad un’ulteriore violazione dei diritti umani nel Paese, ma porterà anche alla distruzione di centinaia di migliaia di specie animali e vegetali perché l’irrorazione aerea che hanno usato per 30 anni in Colombia ha dimostrato non è essere efficace per risolvere il problema.

A distanza di tre anni dalla firma dei trattati e alla luce di quanto avete denunciato, siete pentiti della vostra scelta?
JC: No. Quando abbiamo preso la decisione di firmare un accordo eravamo consapevoli delle sfide a cui andavamo incontro, abbiamo lasciato le nostre armi, ma non la lotta. Quello che abbiamo fatto è stato cambiare lo scenario della battaglia. Crediamo che la comunità internazionale non dovrebbe permettere che la speranza di pace dei colombiani venga tradita, non tradirebbero noi, tradirebbero un popolo. Il governo Duque e tutti coloro che si sono opposti alla firma dell’accordo non vogliono che la giustizia prevalga in Colombia, perché molti politici sono coinvolti nella violazione dei diritti umani e nel sostegno ai gruppi paramilitari. L’accordo stabilisce che le tre parti che erano attive nel conflitto devono comparire di fronte al sistema giudiziario: gli ex guerriglieri, i militari e la polizia e una terza parte. Quest’ultima è costituita dai civili che hanno messo i soldi, quelli che hanno finanziato la guerra, la creazione di gruppi paramilitari e i politici che hanno approvato le leggi mirate al prolungamento del conflitto. Il Congresso della Repubblica ha stabilito che solo gli ex guerriglieri e l’esercito devono comparire in tribunale ma in questo modo non ci può essere né verità né giustizia. Oggi denunciamo che ci sono settori delle forze militari coinvolti nell’uccisione di alcuni nostri militanti; la possibilità che la storia dei falsi positivi si ripeta è alta e solo la comunità internazionale può impedirla.
Credi che per il governo colombiano fosse più vantaggiosa la lotta armata rispetto a quella esclusivamente politica?
GL: Il principale portavoce dell’estrema destra, il senatore Alvaro Uribe, ha affermato pubblicamente che preferisce un guerrigliero in armi rispetto ad una guerriglia che si è trasformata in un partito politico e che sta facendo politica. Ma questo non conviene al Paese, è quello che vuole l’estrema destra per spingere la Colombia alla guerra, perché la destra stessa ha beneficiato della guerra, si è arricchita. Quelli che muoiono sono sempre i figli del popolo, i figli dei ricchi non sono mai andati su un campo di battaglia, non hanno sofferto a causa della guerra, non sanno cosa sia ma danno ordini dalle scrivanie. Noi, gente del popolo, al contrario, abbiamo sofferto e siamo stati costretti ad affrontarci tra di noi, fra fratelli. Questa è stata la guerra fratricida che abbiamo vissuto. La Colombia nel tempo è cambiata in meglio. Nelle ultime elezioni del 2018 ci sono stati più di 8 milioni di voti verso il candidato presidenziale della Colombia umana (Gustavo Petro ndr), non era mai accaduto. Abbiamo anche fatto una consultazione anticorruzione in cui 11 milioni di persone sono andati a votare. Significa che si sta cercando il cambiamento affinché una nuova società sia costruita sulla giustizia sociale.

Come è stato per te abbandonare la clandestinità?
GL: È stato un processo davvero difficile. Quando ero nella guerriglia, avevo una squadra, un equipaggiamento militare e un fucile; dopo la transizione non avevo più niente: nessuna assistenza sanitaria, niente casa, né titolo di studio perché la mia istruzione non è riconosciuta dagli istituti del nostro Paese. Abbiamo bisogno di tutto questo per una concreta incorporazione politica, economica, sociale e culturale nella società. La nostra vita nella guerriglia, anche se complicata, era molto semplice. Avevamo solo ciò di cui avevamo bisogno, come in un qualsiasi esercito: tre divise e i nostri stivali speciali; li lavavamo, li asciugavamo ed erano pronti. Il cambiamento che abbiamo sentito di più riguarda la nostra vita collettiva. La nostra comunità ci ha insegnato, ci ha educato, ci ha dato affetto, ci ha dato fiducia, la nostra comunità ha condiviso con noi le gioie ma anche le difficoltà, gli amori e la mancanza di amore. Abbiamo creato legami profondi di amicizia, di famiglia e questa nuova vita ci ha un po’ «individualizzato». Quell’amore per il collettivo non lo abbiamo più come prima e, naturalmente, ci manca.

Cosa chiedete alle Nazioni Unite?

GL: L’Unione Europea deve essere informata su ciò che sta realmente accadendo nel nostro Paese, abbiamo bisogno di solidarietà e di sostegno economico per far rispettare il trattato di pace. Inoltre non sappiamo dove siano finite le risorse del «Fondo Colombia en Paz» destinato alla nostra incorporazione. Come firmatari dell’accordo abbiamo adempiuto agli impegni presi e chiediamo al governo di rispettarne l’attuazione, almeno per garantire la vita di noi militanti perché ci stanno uccidendo. Stanno assassinando i militanti del partito ed i leader sociali che si battono per la restituzione delle terre ai contadini, per la difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Più di 600 leader e 134 compagni del partito sono stati uccisi sistematicamente dopo la firma dell’accordo. Dobbiamo fermare questa situazione in Colombia, abbiamo firmato un accordo per costruire una società riconciliata e in pace, non per essere uccisi.

Qual è la principale sfida che dovrete affrontare nei prossimi anni?

JC: Le sfide sono diverse, ma sono due quelle principali. La prima consiste nel rompere lo stigma, le accuse a cui siamo ancora sottoposti. Con l’aiuto della maggioranza dei colombiani dovremo costruire un grande patto politico nazionale che elimini le armi dall’esercizio politico e che permetta una riconciliazione tra coloro che hanno vissuto la guerra in Colombia. Questa è una sfida molto grande: trovarci tutti, vittime e carnefici, persone colpite insieme a coloro che erano nell’attività armata. La seconda è quella di lavorare per l’istituzione di un governo che permetta di stabilire i percorsi e le rotte per attuare l’accordo e completare la pace in Colombia. Il processo di dialogo con l’Esercito di Liberazione Nazionale deve essere riaperto e deve essere stabilito un percorso di assoggettamento delle bande paramilitari per garantire che la guerra non si ripeta.