Rifugiatosi in Scandinavia nel 2005, Faraj Bayrakdar trova l’ispirazione poetica durante il periodo di detenzione in Siria. Nel 2016 viene tradotta la sua prima raccolta, Il Luogo Stretto (Nottetempo), composta a memoria nella prigione di Tadmur; ora è la volta di Specchi dell’assenza (Interlinea, pp. 120 euro 12; traduzione di Elena Chiti; ), antologia scritta tra il ‘97 e il 2000 che tratteggia i volti del carcere.
Questo triennio è l’ultimo di una prigionia durata 14 anni: arrestato per la prima volta nel ’78 con l’accusa di affiliazione al partito d’opposizione, Faraj Bayrakdar viene scarcerato e poi nuovamente arrestato. Dall’87 al ’93 vive in isolamento a Tadmur, in mezzo al deserto siriano, poi trasferito nella prigione di Saidnaya dove rimane fino al 2000 quando, grazie alle pressioni internazionali, viene liberato.

Qual è il volto del carcere che ricorda?
Talvolta è un posto contraddittorio. Altre volte un luogo senza tempo o un tempo senza luogo: l’esatto contrario di ciò che affermava Gaston Bachelard nella Poetica dello Spazio. È un tempo viscido, vischioso, dalle intenzioni cattive che interrompe la vita e le sue attività. È un’isola di soli uomini (o sole donne). Un inferno dantesco. Il carcere è l’assenza che più si avvicina alla morte e in alcuni casi vi si sovrappone. Le famiglie, in Siria, avevano paura di dire che i loro figli erano in carcere. Trascorrevano lunghi periodi senza sapere nulla sulle loro condizioni: i miei genitori hanno appreso che ero vivo solo dopo 6 anni dall’arresto. Anche i miei due fratelli erano in prigione, ma sono usciti prima di me e senza poter dare notizie sul mio stato di salute.

Anche «Specchi dell’assenza», come la raccolta precedente, ha affrontato un percorso tortuoso prima della pubblicazione…
Specchi dell’assenza è rimasto fermo per 5 anni: avevo inviato il manoscritto al Ministero della Cultura siriano, che però negò il consenso alla pubblicazione. Così, i miei versi sono rimasti chiusi in un cassetto fino a quando non è arrivato un altro impiegato: uno scrittore che mi ha telefonato per dirmi di aver trovato il manoscritto e che acconsentiva alla pubblicazione. Lo avvisai che se avesse osato cancellare o modificare anche una sola parola, mi sarei regolato di conseguenza. Il manoscritto venne pubblicato regolarmente, ma i servizi segreti non permisero che arrivasse nelle librerie. Poi, un amico che lavorava al Ministero iniziò a trafugare un po’ alla volta le copie giacenti negli uffici per distribuirle gratuitamente, finché non fossero finite.

Nel caso di questo ultimo volume ha anche avuto l’appoggio della comunità intellettuale internazionale. Ma per quanti non hanno questa visibilità, cosa si può fare?
Ogni notizia che passa al tg, ogni segnalazione di Amnesty International aiuta a tutelare i detenuti politici dalla morte, obbligando Assad a risparmiare loro la vita. Quando la mia prima raccolta è «evasa» dal carcere, scritta sulle veline delle sigarette, non volevo che fosse pubblicata: temevo che le autorità potessero rimandarmi a Tadmur.
Contrariamente a ciò che pensavo, la pubblicazione accese su di me un faro, migliorando le mie condizioni e facendo sì che i miei carcerieri mi risparmiassero la vita. Certo, non per bontà d’animo, ma grazie all’attenzione delle organizzazioni internazionali: il regime uccide i prigionieri di cui nessuno parla.

Cosa resta della Siria dopo sette anni di rivoluzione?
È l’unico territorio al mondo in cui sono presenti truppe americane, russe, iraniane, turche e francesi, Hezbollah libanesi, milizie irachene, afghani e ceceni. Si tratta di una guerra mondiale in miniatura. Nonostante questo, molti media continuano a chiamarla guerra civile. Il regime di Assad non ha più alcun potere decisionale, così come non ce l’ha l’opposizione. Troppi interessi internazionali orbitano intorno alle sorti della Siria: alcuni auspicano che la rivoluzione continui, altri vogliono che venga sedata o potrebbe innescarsi un contagio democratico pericoloso in tutto il Medio Oriente. Altri ancora aspettano il collasso delle autorità per spartirsi i territori. So che non è una situazione facile per i democratici e so anche che pretendere l’indipendenza sia impossibile ma se riuscissero a non cedere a tutti i compromessi potrebbero rendere le condizioni meno dure.
Non ho un passaporto siriano, perché non riconosco e non rispetto il regime di Assad e di conseguenza l’autorità che rilascia a pagamento i suoi documenti. Il mio luogo d’esilio è proprio il Paese in cui sono nato, dove regnano oppressione e prigionia.

Che cos’è per lei la Svezia?
Sono stato invitato a Stoccolma nel 2005 come scrittore ospite per un periodo di due anni. Quando ho deciso di non tornare in Siria e di rimanere come rifugiato politico la mia scelta è stata accolta senza alcuna esitazione. Per questo adesso ho il passaporto svedese: dignità ed equità sono la mia patria.