Nelle elezioni che non dovevano essere e che hanno precipitato la fine del governo May, la grande umiliazione dei Tories (e magari anche la loro fine, seppur con straziante ritardo?) è finalmente arrivata. A infliggergliela, naturalmente, qualcosa di ancor peggio: il Brexit Party del ceffo Farage, con il Labour di Corbyn punito per non essersi lasciato ridurre a fazione berciante in questo neo guelfo-ghibellinismo sull’Europa che sta ormai rimbecillendo l’ex patria del pragmatismo.

Con 29 seggi e il 31,6% dei voti, il “Farage Party” vince ovunque nelle nove regioni elettorali britanniche tranne Londra, salvo conferma dall’Irlanda del Nord, ancora sotto spoglio mentre scriviamo. A Londra hanno vinto i Libdem, in seconda posizione assoluta, (16 seggi, 20,3%) per i quali la British Exit è un’autentica benedizione: gli è bastato schierarvisi contro per uscire dalla quarantena elettorale in cui li aveva reclusi la leadership del magnetico Nick Clegg, poi riciclatosi come leader della comunicazione di Facebook (non risulta che abbia rinunciato al compenso per beneficenza, non attendiamo fiduciosi). Langue in terza posizione il Labour, con dieci seggi, al 14,1% e tallonato dai Verdi: con sette e il 12,1% hanno fatalmente superato i conservatori relegati a quattro miseri seggi e a un punitivo 9,1%. Bene i nazionalisti scozzesi del Snp, che sui tre deputati conquistati stanno già da tempo costruendo un ponte verso un secondo referendum sull’indipendenza. Anemico fino a sparire l’Ukip, il cui ex-padrone Farage ha trasfuso voti nella sua nuova formazione: zero seggi zero per coloro che, vincendo nel 2014, avevano galvanizzato questa lunga marcia verso il caos.

Attenzione ad attribuire importanza soverchia a delle elezioni “punitive”. A ben guardare, non hanno fatto altro che redistribuire gli ultrà del dentro o del fuori dall’Ue attraverso i vascelli-partito, altrimenti ormai semivuoti, che li trasportano. Salta così fuori che, sommati, gli anti-brexit (Libdems, Verdi, Snp, Change Uk, e i nazionalisti gallesi del Plaid Cymru) raggiungono il 40,4 % dei consensi, mentre i baldi brexittieri (Farage + Ukip) sono fermi al palo del 34,9%. E la polarizzazione si radicalizza e invelenisce. Insomma, una tornata elettorale che incoraggia a buttare dalla finestra la complessità, riabilita la malinconica professione dei sondaggisti e conferma appieno le aspettative: Farage ha mietuto bene nelle zone a preferenza leave, i Libdem e il Labour in aree filo remain, e i Tories male dappertutto.

Prevedibilmente Farage, che ha trovato nella missione impossibile e incompiuta di Theresa May l’antidoto giusto alla propria disoccupazione, ha lamentato la decrepitudine del sistema a bipartitismo secco: il solo pensiero di poter replicare un simile exploit alle politiche (sempre meno lontane) lo fa salivare copiosamente. «Il sistema bipartitico ormai serve se stesso. Ostruisce la modernizzazione della politica… e gli daremo addosso».

Per Jeremy Corbyn, che era tornato già da qualche tempo sotto pressione per non aver spinto su un secondo referendum, si profila un nuovo loop di attacchi. Ancorché prevedibile, la performance nefasta del Labour in Scozia (per la prima volta senza deputati europei) lo costringerà a entrare ufficialmente in uno dei due mucchi che queste elezioni hanno ulteriormente definito e compattato.

Quanto ai Tories, si apre ora la sciarada dell’elezione del nuovo leader, il secondo ad avvicendarsi a Downing Street scelto da vecchi bigotti con la tessera e non da tutto il Paese. Che sarà Boris Johnson. Il quale, nei reciproci continui sorpassi a destra con Farage, assumerà una posizione euroscettica ancora più oltranzista.