L’Isochimica di Avellino di Elio Graziano negli anni Ottanta scoibentò circa tremila carrozze dei treni per conto delle Ferrovie dello Stato e realizzò la più grande bonifica da amianto che si sia mai vista in Europa. Trecentotrenta giovani operai rimossero 2.276 tonnellate del malsano minerale, hanno lavorato per anni senza impianti di sicurezza e senza nessuna protezione per evitare il contatto con le polveri di amianto, un fazzoletto sul naso come i banditi del farwest, una «stecca» per grattare, dell’acido per rimuovere il catrame, e oggi fanno i conti con la malattia che attende con pazienza le sue vittime (mesotelioma da asbesto, placche pleuriche, calcificazione pleurica, ispessimento pleurico, presenza di fibre d’amianto nell’organismo).

Pochi giorni fa la Procura della Repubblica di Avellino ha terminato le indagini preliminari, il processo che dovrebbe partire a breve vede accusati vertici delle Ferrovie dello Stato, Asl, Elio Graziano e la direzione aziendale di Isochimica, due sindaci e una giunta, per un totale di 29 avvisi di garanzia. La parte lesa è composta da 237 lavoratori della ex-Isochimica «… un disastro con decessi e lesioni personali gravissime in quanto l’amianto veniva immesso in ambienti di lavoro…danneggiando la vita e l’integrità fisica dei lavoratori» (tratto dalle indagini preliminari della Procura). Uomini che parlano ogni giorno di cose successe trent’anni fa. Voci sospese, segrete, sussurrano una storia terribile.

«Ognuno di noi può raccontarti una storia diversa, ma alla fine si incontrano tutte, e purtroppo sarà un incontro con lo stesso finale. C’era stato il terremoto, per tre anni non ho fatto niente, nel mese di maggio del 1983 ho cominciato a lavorare in quella fabbrica maledetta. Pensa un po’, avevo appena vent’anni quando le prime fibre di amianto hanno cominciato a depositarsi nei miei polmoni, e da allora migliaia di fibre per cinque anni, quando ne basta una sola per scatenare la malattia.

Crocidolite, «amianto blu», quello più pericoloso, pietra sminuzzata che adesso luccica in fondo ai polmoni. Una fabbrica immersa in particelle maligne che graffiavano l’aria con artigli affilati, una nuvola blu che non andava mai via, la sentivi addosso, in bocca, ti circondava e ti stringeva come un velo leggero. Ah, per la miseria, quest’aria non mi lascia la forza di alzare un braccio! Che disgraziato che sono, dovrei spaccare la testa a quel maiale, domani, domani mi sentiranno tutti. Ma sono passati cinque anni e quel velo ormai è un greve mantello, pesa come un macigno, una pietra blu, e sotto ci stai lasciando la vita. Dici che lo Stato adesso ci deve aiutare, abbiamo lavorato per lo Stato. Ma lo conosci lo Stato? Ci farà prima morire tutti, poi, si accorgerà di noi».

E invece le cose non devono andare così, si tratta adesso di cancellare le ultime vestigia di eresia della giustizia dopo la vergognosa piega che ha preso il processo Eternit. Propongono cose semplici questi lavoratori: tener conto delle migliaia di fibre depositate nei loro polmoni, della loro evoluzione cancerogena galoppante, e per questo chiedono un riconoscimento e un risarcimento sociale, civile e morale. C’erano gli uomini delle Ferrovie dello Stato quando la fabbrica aprì i battenti, stavano lì dall’inizio a dettare le tecniche di lavorazione, a verificare, a controllare, avrebbero anche dovuto imporre certe precauzioni per eliminare i rischi della contaminazione, vietare certi procedimenti che ammorbavano l’aria. Ma le cose non sono andate così: «Si lavorava dentro nuvole soffici e oggi dentro siamo tutti marci, una bronchite e ti saluto. Quando arriva il mio turno? Quindici compagni sono già morti accovacciati su un letto. L’ultimo non ne voleva sapere niente di analisi e visite, si è chiuso dentro e ha aspettato di morire. Va a finire che aveva ragione lui, non c’è altro che si può fare. E invece no! dobbiamo pensare ai nostri bambini, lasciargli di che vivere. Pensa un po’: stiamo morendo e non ci riconoscono la pensione. l’Inail dice che abbiamo il 6% di invalidità, uno dei morti aveva il 16%. Sono curioso di sapere con quale percentuale mi presenterò io al Padreterno».

Non riusciamo a trovare in queste storie nulla che ci può essere di qualche aiuto per intendere il motivo per cui l’amministrazione burocratica del nostro Paese, costringe uomini malati e destinati ad una prospettiva di vita ridotta, a rodersi l’anima nel disperato tentativo di un minimo di sicurezza, di vita civile, per affievolire, non per sconfiggere, le ombre che ancora non danno pace. Una società fossilizzata, ostile, una strada sbarrata da regolamentazioni e normative obsolete che fanno dire a Nicola Abrate, uno degli ex-operai dell’Isochimica: «Non sto lavorando, non mi hanno fatto partecipare ad un concorso per pulire i cessi perché nelle mie condizioni nessuno mi rilascia un certificato di sana e robusta costituzione, non posso andare in pensione. Allora amici miei io che devo fare? Mi devo mettere una fune al collo? E quelli che lavorano non stanno meglio: Antonio, Michele, Vincenzo, fanno i “favcatur”, cioè stanno sui pontili, con la asbestosi che è una malattia che ti dice di stare a casa al caldo, perché basta una bronchite e amen».

Nella legge di stabilità c’è un emendamento in discussione che potrebbe portare un po’ di giustizia per questi lavoratori, un emendamento alla legge di stabilità dove alla rabbia di essere stati ingannati una volta si unisce la voglia di giustizia che ogni giorno spinge questi lavoratori a chiedere alla società di riparare alla crudeltà della quale si è resa responsabile. Chiedono alla politica una soluzione concreta: un beneficio previdenziale a risarcimento della loro ridotta aspettativa di vita. Non colleghiamo assurdità ad assurdità cominciamo ad aprire lentamente la strada al giusto e basta con i brutti scherzi.

* segretario Cgil Salerno