«Insulsi pecoroni, non capiranno mai». Sono queste le prime parole con cui veniamo a conoscenza di uno degli antieroi più curiosi, divertenti e allo stesso tempo irregolari degli ultimi anni. Il suo nome è Fante Bukowski, ha ventitré anni e sogna di diventare uno scrittore vero, con tanto di contratto, agente, interviste seriose e lunghissime rilasciate a riviste piene di impegno e di passione per la letteratura. Insomma, uno che campa del proprio mestiere, qualcosa di sempre più utopico in questi anni sempre più dominati dall’immagine e sempre meno dalla scrittura o dalla lettura di libri.

È l’ultima creazione dell’americano Noah Van Sciver, classe 1984, esordiente nel 2006 con una antologia di pezzi auto pubblicati, intitolata Blammo, giunta attualmente al numero 9 (uscito negli Stati Uniti nel 2016) che ne ha rivelato presto al pubblico d’oltreoceano un modo curioso di mettere il proprio io al centro di un racconto senza fare degli esercizi di stile, autocompiaciuti. Insomma, si potrebbe dire con una punta di malizia, che è riuscito laddove molti in Italia (nel cinema e nella narrativa oltre che nel fumetto) cercano invano di riuscire da molto tempo.

Fante Bukowski, lo scrittore giovane che vaga nell’America di oggi alla ricerca di un posto dove potersi affermare, è una sorta di prolungamento di questa vena autobiografica. Le sue avventure sono raccolte in due volumi, arrivati anche in Italia grazie alla Coconino press (pp. 176, euro 19) nella collana Cult diretta da Igort. Fante Bukowski è, come ci dice chiaramente il suo nome, anzitutto un omaggio a due scrittori e ad un modo di intendere la letteratura. Irriverente, corrosivo, ma allo stesso tempo scanzonato, autoironico. Pur credendo molto nella forza della letteratura e nelle sue capacità espressive, Van Sciver, rimandando a questi due numi tutelari ha voluto indicare anche l’arco di una traiettoria ben precisa.
Il suo personaggio crede fortemente nella sua passione, passa le notti davanti alla macchina da scrivere, ma non annulla mai la sua vita di fronte alla pagina. L’esperienza della strada, i bar dove poter raccogliere squarci di vissuto sono la sua fonte d’ispirazione principale. Non solo. Li adora, come un feticcio, come reperti sopravvissuti alle mediazioni della cultura, del buon senso, della forbitezza, del galateo. Insomma sono stralci venuti casualmente al suo orecchio e di cui lui spera di poter essere un giorno o l’altro quello che li mette in forma che gli dà una dignità letteraria.

Solo che… Solo che per il momento a Fante Bukowski le cose non vanno affatto bene. Nel secondo capitolo, uscito recentemente, lo ritroviamo un anno dopo le sue prima avventure, a peregrinare in hotel custoditi da perversi portieri di notte, prostitute pronte a tutto, anche a inenarrabili alienazioni della propria dignità. Insomma, il catalogo umano di questo osservatore di tipi umani apparentemente distratto, in realtà lucidissimo, continua.
Fante è un conversatore inesausto, pronto a dialogare con chiunque si trovai accanto al suo sgabello davanti al bancone del bar. Ma è anche un personaggio con dei riusciti risvolti comici, è ad esempio un gaffeur immarcescibile, con uomini e donne, sventurati e potenti agenti letterari che siano. Non ha timori di essere quello che è, incurante delle conseguenze, delle etichette, di ciò che sarebbe opportuno fare o dire di essere.

Come i due scrittori emigrati che ha deciso di omaggiare cambiando nome, Fante Bukowski crede nell’avventura, negli incontri casuali, in tutto quello che la vita può offrire giorno per giorno.
«Peccato che mi ostini a non scrivere di zombie», dice tra se e sé, fintamente rimpiangendo una scarsa capacità di adeguarsi a ciò che il mondo vuole o vorrebbe da lui. Fintamente perché questo è il suo maggior motivo di orgoglio, restare ai margini del dover essere imposto dalla società ed essere ciò che si è, in tutto e per tutto.

Ne escono fuori scene fulminanti, come quando imbucatosi ad un reading di poesie con l’obiettivo di farsi un po’ di relazioni non si trova faccia con il poeta, dotato di capelli verdi, giacca gialla e immancabile sciarpa di lana al collo. E quel punto, mentre questo gli spiega sovraeccitato che «un artista dovrebbe mantenere puro il proprio corpo! Sano e pulito! Il corpo dell’artista è il filtro, la macchina che coglie la bellezza!». E Fante, senza il minimo senso dell’opportunità, gli risponde «l’alcool è l’unico motivo per cui le sto parlando». Per poi, appena dopo aver avuto fra le mani una fanzine autoprodotta di un’altra aspirante scrittrice, darsela a gambe con inusitata felicità e malcelato sollievo.
Fante Bukowski è un personaggio che sprigiona letteratura , che parla o respira letteratura in ogni cosa che dice o che fa eppure non riesce a restarci antipatico, anzi al contrario ci sembra più che mai umano.

Anche la cornice in cui sono inserite le sue gesta è puramente letteraria. Lo dimostrano le citazioni che aprono ogni capitolo, scelte con grande accuratezza da Van Sciver per creare una galassia di riferimento che va dai grandi scrittori vitalisti del primo novecento come Hemingway e Fitzgerald, a Vonnegut, al Woody Allen di cui si è scelto la frase «il sesso senza amore è un’esperienza vuota, ma tra le esperienze vuote accidenti se è bella».
Sciver è anche il disegnatore di queste strisce, realizzate come se fossero degli acquerelli, nel tentativo di seguire o di inseguire una leggerezza, un modo di stare al mondo senza complessi o sensi di colpa che forse è la vera ricetta di Fante Bukowski. E beninteso anche dei suoi due illustri e sregolati antenati.