Nel 1144, dopo la caduta della contea di Edessa in mano ai Turchi, Raimondo d’Antiochia, temendo di perdere anche il proprio principato, mandò il vescovo Ugo di Jabala da papa Eugenio III per convincerlo a indire un’altra crociata. A Viterbo, Ugo raccontò del Prete Gianni, un sovrano-sacerdote cristiano che alla testa dei suoi eserciti stava premendo sui Turchi da est – forse i cristiani d’Occidente avrebbero potuto contare sul suo appoggio per prendere i nemici musulmani tra due fuochi. O forse no. Nel 1141, a Samarcanda i Turchi erano stati sconfitti da invasori provenienti da est, ma erano Turchi Selgiucidi, distinti da quelli che avevano preso Edessa, ed erano stati sconfitti dai Kara-Khitai, un khanato buddista di origine cinese, che di cristiano può darsi avesse, al massimo, qualche popolazione tributaria nell’Asia Centrale allora non del tutto islamizzata.

CHE LA STORIA del Prete Gianni fosse fake news, l’espressione di un’ingenua speranza, oppure il tentativo di ridicolizzarla, essa venne ripresa vent’anni dopo dal geniale autore di un falso, una lettera del Prete Gianni in persona all’imperatore bizantino, che la trasmise a Federico Barbarossa e si diffuse poi in tutta la Cristianità. Ricopiata innumerevoli volte, a ogni edizione la leggenda del Prete Gianni si arricchiva di nuovi elementi fantastici, assorbendo come una spugna descrizioni di popoli esotici, di costumi bizzarri, di avvenimenti mitici che in parte risuonavano da altre storie, come quelle raccontate trecento anni prima da Eldad il Danita, il mercante ebreo che aveva incantato i suoi ascoltatori nella città di Kairouan.

MA DOPO LE CROCIATE, l’Europa riprende gradualmente familiarità con l’Oriente, e questo regno del Prete Gianni, originariamente localizzato da qualche parte nelle «Tre Indie», non si trova. Sarà invece in Asia Centrale? In Cina? Alla fine, quando appare sempre più implausibile che sia ovunque nel continente, l’immaginario collettivo lo mette al sicuro spostandolo di migliaia di chilometri, in Africa. In Abissinia il regno del Prete Gianni prospera per secoli, compare sulle carte geografiche, in racconti di viaggiatori e avventurieri come David Reuveni, e persiste longevo fino alle soglie del 1700.

OLTRE MEZZO MILLENNIO di voli della fantasia collettiva, di vagabondaggi della mente, accompagnati dal vagabondaggio geografico del regno immaginario poco oltre l’incerto confine fra realtà ed ignoto. Come per le storie che circolano adesso con rapidità impressionante sui social network, e che repentinamente si estinguono, è cruciale la verosimiglianza degli elementi costitutivi, l’avvalersi di schemi che hanno già dimostrato la loro veridicità in contesti analoghi. E così, per la capacità individuale di fantasticare, di volare di fantasia, o semplicemente di lasciarsi trasportare dai propri pensieri, di cui le neuroscienze hanno cominciato ad occuparsi, appare fondamentale la possibilità di ricomporre e rinnovare in continuazione frammenti di memorie e di schemi concettuali depositati nel nostro cervello. Ma quali sono, nel cervello, i principali responsabili delle nostre fantasticherie? La ricerca degli ultimi anni è riuscita a indicarne due, inferendo il loro contributo per negazione, quando non possono darlo.

DAGLI STUDI di Eleanor Maguire, a Londra, sui pazienti con l’ippocampo danneggiato, appare come il mancato apporto di questa parte dei lobi temporali impedisca ai soggetti di «colorare» i propri pensieri con scene di vissuto, reale e ricordato o ricomposto mentalmente da pezzi di origine diversa, ma ricchi di dettaglio e di vivezza percettiva. Dai lavori di Elisa Ciaramelli, a Bologna, si vede invece come pazienti lesionati nella corteccia prefrontale, in particolare nella sua componente ventromediale, abbiano difficoltà ad organizzare i frammenti utilizzando schemi, impalcature logiche con una loro coerenza anche sociale e temporale. Senza corteccia prefrontale, la mente è ingabbiata nel presente, e nel proprio sé; senza l’ippocampo, non riesce a vivere nell’immaginazione l’esperienza sensoriale.
Forse possiamo allora distinguere fra una capacità piena, di fantasticare a ruota libera; una limitata dall’assenza di coloritura sensoriale; ed un’altra, che non riesce ad estendersi perché non supportata dagli schemi? Non solo si può, è stato fatto. E descritto in poesia. Da Dante, nel diciassettesimo canto del Purgatorio. L’ha osservato Andrea Tabarroni, riuscendo a leggere nella Divina Commedia quell’intuizione che il Sommo Poeta inserisce nel mezzo esatto del racconto del suo vagabondaggio dall’Inferno al Paradiso; e cui noi comuni mortali stiamo arrivando, con la fatica della ricerca scientifica, solo settecento anni dopo.