Federico Tiezzi ha costruito per il suo ritorno al Fabbricone di Prato, del cui teatro è stato in passato direttore, un vero «spettacolo della maturità». Come del resto il Faust di Goethe nasce dal poeta tedesco davvero come elaborazione della maturità di ogni intellettuale europeo, davanti ai suoi dilemmi morali e civili. E anche la regia in questa occasione appare davvero «europea», inquadrata nella scenografia bianca e lineare di Gregorio Zurla, che sembra rispondere ai concetti fondanti del 900 di Gordon Craig.
Del resto Faust ha rappresentato una meta di arrivo per molti grandi maestri, da Strehler che giunse a mostrarsi nudo in prima persona, a Massimo Castri che del suo Urfaust, prima versione del testo definitivo, fece una tappa fondamentale del suo teatro. Per non parlare della grande tradizione tedesca recente, che dallo «scandaloso» Mephisto di Gustaf Gründgens e Klaus Mann, arriva pochi anni fa al colossale Faust di undici ore che Peter Stein affidò a Bruno Ganz.

NEL CASO di Tiezzi, questa sua regia viene dopo il fascinoso e illuminante percorso del Freud dello scorso anno, così che risulta ora immediato per ogni spettatore come l’incontro/scontro tra Faust e Mefistofele rappresenti il più classico dei casi di sdoppiamento di una sola creatura. Come anche lo spettacolo, il cui vero titolo è Scene da Faust (sono 13), tutte giocate su doppi e tripli livelli: nella parola, nel canto, nei corpi che a tratti paiono danzare. Mentre il viaggio, di conoscenza e di abisso, di pensiero e di carnalità, ha la circolare traiettoria di una morale che continuamente si riavvolge su se stessa, benché la sua luce finale sia quella di una cosciente autodistruzione.

TESTO con due protagonisti assoluti e titanici, in lotta e in competizione, tanto che l’oggetto prezioso del loro patto «scellerato» (inutile dire «diabolico»), la preda di scambio Margherita/Gretchen (interpretata da Leda Kreider), si inarca nel momento della propria consunzione estrema, inalberandosi in un canto che fortemente, quanto inutilmente, vorrebbe rivendicare la sua centralità. Difficile da ottenere, con due attori formidabili, Mefistofele/Sandro Lombardi e Faust/Marco Foschi, che offre qui una prova di grande efficacia e maturità.

LA PREFERENZA femminile è condannata quasi a una sorta di pretestuosa «inutilità», così come, all’inizio, quella santa e mistica degli arcangeli di un qualche paradiso, che cantano praticamente nudi, appesi a testa in giù, come preghiere o sicurezze andate storte. Fa riflettere questo Faust nelle sue 13 scene, più che commuovere o temere. Scopre il dolore e il prezzo dietro il piacere e la sua ricerca: quello di Faust che vende la propria anima, e quello del suo alter ego luciferino che sfida e combatte il massimo ordine costituito, quello divino. e, che dopo aver ammirato tanta bellezza, cui la direzione musicale di Francesca della Monica (su temi di Mahler, Penderecki, ma c’è anche Antony and the Johnsons) conferisce il respiro e le suggestioni di una grandiosa opera lirica, si scioglie in un lungo caloroso applauso, forse anche di paura, per il percorso appena attraversato.