Nuove storie s’intrecciano nello scenario della 57. Biennale d’Arte di Venezia, alcune delle quali attraversate dal linguaggio fotografico in una chiave di consapevolezza delle fragilità del momento storico contemporaneo. Come mette in guardia la direttrice Christine Macel, «l’umanesimo è messo in pericolo» e sono proprio gli artisti a dover contrastare questa realtà incerta, proponendo un’alternativa che dia voce alla libertà d’espressione. Perché, appunto, «l’arte è l’ultimo baluardo, un giardino da coltivare al di là delle mode e degli interessi specifici (…)».

Tra i numerosi appuntamenti veneziani partiamo, quindi, da quello con Boris Mikhailov (Kharkov, Ucraina 1938) che rappresenta l’Ucraina nel padiglione situato nel sestiere di Cannaregio e curato da Peter Doroshenko, direttore di Dallas Contemporary, insieme a Lilia Kudelia. Il fotografo ucraino ha costruito la sua poetica cogliendo la tensione di un qualcosa che sta per accadere, una ricerca presente anche nella nuova serie Parliament, iniziata nel 2014. L’oscurità, soprattutto se riferita alla società ucraina, è a suo parere uno dei fantasmi più preoccupanti. Procede giustapponendo la rappresentazione analogica con quella digitale e scomponendo l’immagine nel tentativo di rendere visibili incongruenze e contraddizioni della comunicazione mediatica. Il senso dell’humor è un’altra sua cifra riconoscibile, assai utile quando si tratta di scardinare i luoghi comuni.

Niente è arcaico in Iraq

Di tensione parlano, poi, i curatori del padiglione dell’Iraq, Tamara Chalabi e Paolo Colombo, affidato per la terza volta alla Ruya Foundation che, a Palazzo Cavalli-Franchetti, presenta la mostra Archaic. Chiamati a dialogare intorno a quaranta antichissimi reperti (dal neolitico al secondo impero babilonese) provenienti dall’Iraq Museum di Baghdad che, saccheggiato durante la seconda guerra del golfo è stato riaperto nel 2015, gli artisti Jewad Selim, Shakir Hassan Al Said, Francis Alÿs, Sherko Abbas e Ali Arkady. La tensione è già insita nel termine «arcaico», sinonimo di qualcosa di cristallizzato, desueto, lontano dalla contemporaneità che sappiamo essere di centrale rilevanza nella definizione identitaria di un paese attraverso il suo patrimonio millenario. Negli scatti a colori della serie The Land Beyond War (2017) il fotoreporter Ali Arkady (Khanaqin 1982) – in prima linea dal 2014 nel documentare l’avanzata dell’Isis – con uno sguardo estremamente lucido ci mette di fronte ai punti deboli della società irachena nelle sue diverse sfumature, in particolare documentando l’impatto della guerra sui soldati e sui civili e dando la giusta rilevanza al fenomeno migratorio anche nella sua declinazione più drammatica, con la crisi dei rifugiati curdi, cristiani e di altre minoranze come quella yazida.

shirinneshat
I ritratti di Shirin Neshat

Intorno all’identità apre un nuovo capitolo del suo lavoro Shirin Neshat (Qazvin 1957, vive e lavora a New York), che alla 48/ma Biennale d’arte fu premiata con il Leone d’oro per le video-installazioni Turbulent e Rapture.
Tra gli eventi collaterali, la mostra The Home of My Eyes, curata da Thomas Kellein è un progetto della tedesca Written Art Foundation. Nelle sale del Museo Correr, insieme al video Roja (2016) parte della trilogia Dreamers, il progetto che dà il titolo alla mostra (è stato commissionato da Yarat Art Center di Baku e realizzato nel 2014-2015) è costituito da cinquantacinque ritratti fotografici di cui ventisei esposti a Venezia che l’artista e filmmaker iraniana ha stampato su carta ai sali d’argento, intervendo successivamente con la scrittura che ha tracciato con l’inchiostro nero. Raccontando la complessità delle condizioni sociali azere (confrontandosi contestualmente con la propria storia personale) l’artista realizza quella che definisce «una tappezzeria di volti umani», con i ritratti frontali di uomini, donne e bambini che, benché mantengano la stessa posa, come simili sono i gesti e gli indumenti che indossano, esprime i sentimenti psicologici legati al dislocamento e al sentirsi straniero in termini di etnia, religione, lingua.

I ricami di Choumali

Da piazza San Marco ci spostiamo all’Isola di San Servolo con un altro evento collaterale di forte impatto, Insane Asylum. Portraits as Mirroring of the Past la mostra dell’artista norvegese Anne-Karin Furunes (1961), un progetto di Elena Povellato curato da Daniela Ferretti. Lavorando a lungo sul posto, consultando il fondo fotografico dell’archivio dell’ex manicomio che da secoli si trovava a San Servolo, Furunes si è riappropriata dei volti delle pazienti, donne dimenticate dalla storia, rendendo loro la dignità negata senza edulcorare l’angoscia della malattia.

Nell’installazione site-specific la percezione, attraverso l’utilizzo dell’immagine su supporto forato, acquisisce tridimensionalità e allo stesso tempo una nuova identità. A seconda della distanza la visione può essere nitida o sfocata, astratta o reale.

Di percezione torniamo a parlare, infine, con le opere della fotografa Joana Choumali (Abidjan 1974) che insieme a Ouattara Aboudramane (detto Wats), Jem’s Kokobi, Silue Kagnedjatou Joachim e Raimondo Galeano rappresenta la Costa d’Avorio al suo secondo appuntamento veneziano dopo il debutto del 2013. A Palazzo Dolfin-Gabrielli (il curatore è Massimo Scaringella e il commissario Yacouba Konate) Choumali, che in Italia ha esposto anche nel 2015 al Photolux di Lucca, presenta i recentissimi dittici della serie Translation (2017) in cui mette a confronto luoghi lontani ricamando con i fili colorati sulla fotografia stampata su tela. Il filo e l’azione del ricamo rendono espliciti aspetti emotivi – paure, desideri, sogni – che entrano in tutta la loro fisicità direttamente nell’immagine. Operano una decodificazione dell’inconscio, proprio come nella serie Adorn (2015) dove l’esaltazione della femminilità delle donne africane è anche sinonimo di forza, emancipazione e creatività.

 

SCHEDA

My Art Guides Venice Meeting Point – piattaforma per la promozione del dialogo internazionale nell’ambito dell’arte contemporanea creata da Lightbox nel 2015 – è attiva durante i 4 giorni delle vernici della Biennale di Venezia (9–12) presso il Circolo Ufficiali della Marina Militare, a due passi dall’ingresso dell’Arsenale. Mara Sartore (direttore artistico di Lightbox e editor in chief di My Art Guides) ha collaborato con MAP Office, duo artistico formato da Laurent Gutierrez e Valerie Portefaix alla selezione degli artisti in mostra. L’evento fondante di questa terza edizione è la pubblicazione del poliedrico libro «Our Ocean Guide». Il tema ha contaminato tutto il Meeting Point, che quest’anno è intitolato «An Ocean Archive»: fra le opere in mostra, ci sarà il video di Patty Chang «Invocation for a Wandering Lake» in cui l’artista lava un capodoglio spiaggiato e due sculture della serie «Of Saints and Sailors» realizzate da Benedetto Pietromarchi durante il suo lungo viaggio a bordo di una nave cargo attraverso l’Oceano Atlantico. Tra gli altri artisti, Heman Chong, Mariana Hahnah, Ignazio Mortellaro, Olivia Mc Gilchrist.