Che bello ritornare all’interno di un teatro, si diceva, ma lo è altrettanto ritrovare spazi molto amati come le stanze dalle pareti nere del Comandini, a Cesena, che riaprono sotto il segno dell’enigmatica, inquietante performance visiva e sonora di Romeo Castellucci sul potere totalitario della parola, si intitola infatti Il terzo Reich. E chi conosce un poco il lavoro dell’artista non fatica a ritrovarvi il filo che dal lontano Amleto attraversa lo sconvolgente Genesi di qualche decennio fa. O le ottocentesche Artificerie Almagià, a Ravenna, perfetto esempio di archeologia industriale recuperata alla cultura, dove Fanny & Alexander – nell’ambito del cartellone 2021 del Ravenna Festival – hanno presentato il loro onirico Sylvie e Bruno.

E VERREBBE VOGLIA di dimenticare per un momento, se fosse possibile, la desolante vicenda della nomina del nuovo direttore di Emilia Romagna Teatro e la sua ancor più sconfortante conclusione, e i corvi neri che pure già si addensano sul Teatro di Roma. Lo spettacolo che Chiara Lagani e Luigi De Angelis hanno tratto con molta libertà dall’ultimo romanzo di Lewis Carroll, lei drammaturga e interprete, lui regista (ma a Chiara Lagani è dovuta anche la nuova traduzione del romanzo appena pubblicata, ne ha scritto Paola Colaiacomo su Alias) sembra prendere il via dal medesimo pomeriggio caldissimo in cui inizia la discesa di Alice nella sua Wonderland. Anche qui del resto c’è di mezzo una bambina, con un fratellino, come recita il titolo Sylvie e Bruno, e un paese delle meraviglie che può adombrare tanto l’Inghilterra vittoriana del reverendo Dodgson quanto un tempo a noi assai più vicino. Dove si parla di un assalto al Campidoglio guidato da un finto vichingo con le corna in testa e di una crisi economica in cui non è il momento di prendere soldi dai cittadini ma di darne. Che poi i bambini abbiano una speciale relazione con il teatro, va da sé. Diciamo che sta nel piacere di ascoltare una storia che si sa già come va a finire. Da grandi impareranno che questa storia si chiama vita. «Facciamo che», dice il narratore. Adesso vi racconto una storia. Facciamo che questa piazza è un giardino. E lo spazio nudo dell’antico magazzino dello zolfo si anima senza bisogno di arredi scenici, bastano le luci mutevoli create dai proiettori che stanno tutt’intorno e qualche sedia bianca che, come nei giochi infantili, possono trasformarsi nella carrozza di un treno.

BASTANO i cinque interpreti (oltre a Lagani, sono Marco Cavalcoli, Andrea Argentieri, Roberto Magnani e Elisa Pol) che volentieri cambiano mantelli e soprabiti, appesi a vista fuori dal perimetro della scena, ma non diventano mai personaggi nel senso convenzionale del termine. Creature metamorfiche, piuttosto.
Anche il sovrapporsi dei piani narrativi scolora nel sogno o in quella sua metafora che è il gioco (teatrale). Anche il riluttante narratore, coinvolto nel gioco, ha il suo bel daffare a star dietro alle avventure di una Lady Muriel e i suoi due spasimanti, a congiure di palazzo e rivolte di piazza, a lezioni su quale sia l’ora migliore per vedere le fate. Dove siamo finiti? si chiedono spesso. Se lo chiede anche lo spettatore, felice comunque di esserci.