Non è un mistero che moltissimi scrittori corsero volontari alla Grande Guerra. Tra loro, Charles Péguy – fedele alle sue convinzioni e alla fucina del libero pensiero dei «Cahiers de la Quinzaine» – perse la vita all’alba della prima battaglia della Marna, a Villeroy. Un destino simile toccò al nostro Renato Serra sul Podgora, nei pressi di Gorizia, dopo aver pubblicato sulla «Voce» le acute riflessioni dell’Esame di coscienza di un letterato.

Sul Fronte occidentale un’intera generazione di poeti inglesi fu sbalzata in corsa dall’emozione iniziale alle ecchimosi del fango, del freddo, dei gas (fosgene, iprite noto anche come «gas mostarda»), degli shell shock o shock da granata. Paola Tonussi ricostruisce la testimonianza lirica di «coloro che erano lì» – nuda definizione di Edmund Blunden – in War poets Nelle trincee della Prima guerra mondiale (Edizioni Ares, pp. 320, € 20,00). È un accurato florilegio, un’«elegia per una gioventù perduta», che comprende la vita e i testi di quattordici autori, da Robert Graves a Thomas Hardy, da Wilfred Owen a Philip Edward Thomas. L’imagery idealistica e la volontà di sacrificio dei primi mesi sono rapidamente sostituite dal trauma profondo nella feroce battaglia della Somme, in cui la realtà brutale del conflitto si manifesta in tutto il suo orrore.

«I versi di guerra – osserva Tonussi – quasi mai hanno la possibilità di essere rivisti, il verbo perfetto trovato, la parola giusta inserita nel contesto come sia sempre stata lì: a questi poeti non è dato vedere le loro poesie come qualcosa di “inevitabile”, nelle parole di Brodskij». In che modo sono state scritte e conservate tali liriche? Sul retro di una busta o inviate nel corpo di una lettera, appuntate qua e là e poi riemerse dalle tasche delle uniformi. Puri brandelli riconsegnati alla storia: questi sono i lacerti dei ragazzi che W.H. Auden immaginerà «esplodere come bombe».

«Ci sono strani inferni nelle menti formate dalla guerra», appunta Ivor Gurney, congedato dall’esercito e finito in un ospedale psichiatrico per via delle numerose ferite riportate che gli causarono il disturbo bipolare. Fa da severo controcanto Charles Sorley, scomparso a soli vent’anni per mano di un cecchino nella battaglia di Loos: «Quando vedrai milioni di morti senza voce / In pallidi battaglioni passare nei tuoi sogni, / Non dire, come altri han fatto, dolci frasi / Che ricorderai. Non ti è richiesto». Al cordoglio inesprimibile si somma l’imagismo di Richard Aldington, sciolto in uno smagato canto esistenzialistico («Inutile, / Quant’è inutile tutto questo clamore, / Questa distruzione e contesa…»). Ma gli esiti più alti della war poetry sono probabilmente racchiusi nei fogli che i genitori di Owen lessero quando venne loro recapitato lo zaino del figlio, morto il 4 novembre dopo un agguato a Ors, pochi giorni prima dell’armistizio di Compiègne. Resta il suo timbro di sale a futuro monito: «Maledetti gli stolti che nessun cannone stordisce, / Che sembrano essere di pietra. / Sono miserabili, meschini / Di una pochezza che non è mai stata ingenuità. / Per scelta si son resi immuni / Alla pietà e a tutto ciò che geme dentro l’uomo / (…) La reciprocità eterna delle lacrime».