Dopo la tragica Le Siège de Corinthe e la giocosa La pietra del paragone, entrambe in scena all’Adriatic Arena, alla XXXVIII edizione del Rof è la volta del dramma semiserio in due atti Torvaldo e Dorliska, in scena fino al 21 agosto al Teatro Rossini. Composta nel 1815 per il Teatro Valle di Roma, l’opera è una pièce à sauvetage, con al centro una fanciulla innocente perseguitata da un potente cattivo che solo nel finale, dopo numerose vicissitudini, viene miracolosamente salvata, ricongiungendosi al suo amato.

Il libretto di Cesare Sterbini, di lì a poco autore del ben più celebre Il barbiere di Siviglia, è ispirato al romanzo allora Vita e amori del cavaliere di Faublas di Jean-Baptiste Louvet de Couvray, già alla base del libretto Lodoïska messo in musica da Luigi Cherubini (1791), Stephen Storace (1794) e Simon Mayr (1796).

Tutto in quest’opera parla di luoghi comuni, convenzioni, imitazioni e riusi, spiegando forse il disinteresse che ben presto Rossini mostrò per la partitura, ricostruita non senza difficoltà in edizione critica per la Fondazione Rossini da Francesco Paolo Russo nel 2007 e ora finalmente in scena. Ai primi cimenti col genere semiserio, il compositore sembra non avere ancora trovato la chiave per farlo suo, come sarà invece nei capolavori La gazza ladra (1817) e Matilde di Shabran (1821). La genericità e la stereotipia di molti passaggi dell’opera, senza misconoscere gli sparuti lampi inventivi del genio rossiniano, hanno la meglio nella direzione fiacca e poco consapevole di Francesco Lanzillotta, al debutto pesarese a capo dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini e del Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini, la cui prestazione è stata altalenante. Nei ruoli del titolo Dmitry Korchak, dotato di una voce potente e di un fraseggio vario, e Salome Jicia, bravissima nelle agilità e nelle colorature, a meno di acuti un po’ sforzati e metallici.

Al loro fianco il cattivo Nicola Alaimo (Ordov), che dopo un inizio a tratti incerto padroneggia il ruolo impervio,  e il buffo Carlo Lepore (Giorgio), dalla voce pastosa e dalla mimica trascinante. Raffaella Lupinacci (Carlotta) e Filippo Fontana (Ormondo) si disimpegnano bene nelle cosiddette arie da sorbetto. L’allestimento di Mario Martone, con costumi di Ursula Patzak e scene di Sergio Tramonti, ripresa di quello mandato in scena nel 2006, ricostruisce un luogo di vago esotismo medievale nordico, tenendo  la scena fissa e il pubblico sul palco a far da quinta, mentre l’azione si sviluppa per tutta la platea. Accanto alle riletture libere e spregiudicate di Padrissa e Pizzi, quella di Martone, assai più didascalica, rischia di apparire come una cenerentola solo a chi non sia consapevole della difficoltà di allestire opere che, con buona pace di ogni renaissance, restano minori e della differenza di respiro tra uno spazio come quello dell’Arena e quello del Teatro Rossini.