La Mostra volge al termine e si iniziano a tirare le prime somme, cercando per quanto possibile di prescindere dai premi che fanno certamente discutere ma che in realtà non spiegano fino in fondo ciò che si è visto in questi dieci giorni al Lido. E mentre negli spazi dedicati ai dibattiti ci si affanna a definire il cinema di oggi, nelle sale appaiono dei veri e propri oggetti non identificabili tra cui alcuni dei film più discussi e apprezzati del Concorso, in ordine sparso e senza alcuna pretesa censoria di attribuire stellette e pallini, Heart of a Dog di Laurie Anderson, Rabin, the Last Day di Amos Gitai, Beixi Moshuo di Zhao Liang e Francofonia di Aleksandr Sokurov. Lavori che ancora una volta rendono inappropriata la volontà di separare la realtà dalla finzione, il documentario dal film a soggetto. Al contrario, si afferma il puro e semplice concepire e realizzare storie personali, drammi collettivi, sguardi ravvicinati, ricostruzione di sensi.

Autori meno celebrati ma che si sono tenuti anche loro su una soglia non identificabile, li abbiamo incontrati nella sezione Orizzonti. Tra questi il francese Tempête di Samuel Collardey, giunto al suo terzo lungometraggio, e l’israeliano Lama Azavtani (Why Hast Thou Forsaken Me) di Hadar Morag, un’altra regista israeliana all’esordio dopo Yaelle Kayam autrice di Mountain.
Tempête è la storia di un nucleo famigliare composto da un padre trentaseienne, Dominique, e due figli, Mailys e Mattéo. La sorella, scopriamo subito, è nata da una precedente relazione dell’ex moglie di Dominique, ma ha scelto di vivere col padre che, a sua volta, senza alcuna esitazione ha deciso di adottarla. Un trio piuttosto affiatato che nel tempo libero gioca a Scarabeo e organizza feste dove si fumano canne e si consumano alcolici a volontà. Niente di male, la vita prosegue giorno dopo giorno con Dominique che periodicamente si imbarca su un peschereccio per tre settimane. Un lavoro duro e pericoloso che però ama. Ed è proprio da questa passione che inizia la storia vera e propria. Un uomo solo può occuparsi di due figli adolescenti assentandosi per così tanto tempo? E soprattutto vi sono delle alternative possibili per evitare che entrino in gioco i servizi sociali a scombinare fragili equilibri?

Samuel Collardey ha saputo resistere alla tentazione di alzare i toni del dramma. La ragazza che rimane incinta, il padre che prova a rendersi autonomo chiedendo un prestito a una banca per comprarsi una barca, il figlio che non segue più il genitore perché è venuta meno la fiducia, oltre che i soldi per fare la spesa e per pagare il riscaldamento, sono episodi registrati con un volume basso. Tutto resta contenuto in un racconto leggero, dove lo spettatore non viene colpito a suon di emozioni violente, ma è messo nelle condizioni di rielaborare la realtà di personaggi che, alla fine del film, leggendo i titoli di coda, scopriamo essere persone reali. Dominique Leborne è un pescatore che il regista ha incontrato un giorno sulla costa atlantica. Questo sdoppiamento tra realtà e ricostruzione della stessa contribuisce non a rendere più autentico il film, operazione non richiesta, ma a realizzare un prodotto dove l’immaginazione del regista collabora con quella di coloro che si prestano a rimettersi in gioco, a ricostruire il senso della propria vita offrendo agli spettatori lo spazio per riflettere sull’esistenza in genere, tra scelte necessarie e volontà di continuare a essere se stessi.

Pochi dialoghi e molta osservazione nell’opera prima Lama Azavtani della regista israeliana Hadar Morag. Con lei siamo sulle tracce di Muhammad, ragazzo palestinese respinto dai suoi perché lavora in una panetteria israeliana, e ovviamente emarginato anche dagli israeliani per la sua origine. Ma non solo. Muhammad è un ragazzo solitario, introverso, incapace di esprimere i propri sentimenti, con una pulsione sessuale che lo porta a masturbarsi ovunque sia possibile. Nel suo vagare per le strade in bicicletta, tra continue aggressioni e insulti, incontra Gurevich, arrotino che non si annuncia con il disco che ognuno di noi avrà sentito migliaia di volte. In moto con i macchinari per affilare coltelli, Gurevich sembra uscito da un mondo post apocalittico. E, in un certo senso, anche per le scoperte che verremo a fare nel corso del film, l’impressione è che Muhammad, Gurevich e il mondo circostante non siano altro che i resti di un’umanità nuda che, al contrario di quella raccontata in Tempête, non è più interessata a stabilire la differenza tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere.