La Guardia di finanza ieri pomeriggio si è presentata nell’ufficio di Massimo Mantovani per una perquisizione. L’ex responsabile dell’ufficio legale di Eni fino al 2016 e attuale dirigente della società è indagato per associazione a delinquere finalizzata ai reati di false informazioni e calunnia. Secondo la pm Laura Pedio, sarebbe uno degli organizzatori di un depistaggio per condizionare le due inchieste milanesi sull’Eni.

LA STORIA COMINCIA con la procura milanese che indaga per corruzione internazionale l’Eni per le presunte tangenti pagate in Nigeria e Algeria, tra gli imputati c’è l’ad Claudio Descalzi per una tangente da 1,3 miliardi legata allo sfruttamento di un giacimento petrolifero nigeriano.

Alla procura di Trani e Siracusa cominciano ad arrivare esposti anonimi e denunce: si insinua che la consigliera indipendente di Eni Karina Litvack, l’ex consigliere Luigi Zingales e l’ex amministratore delegato di Saipem Umberto Vergine siano i responsabili di un complotto ai danni di Descalzi. Secondo i pm milanesi il complotto non esiste e accusano di associazione a delinquere per avere «posto in essere un vero e proprio depistaggio nel 2015-2016», oltre a Mantovani, il legale esterno di Eni Piero Amara, il suo collaboratore Alessandro Ferraro (entrambi arrestati ieri) e il tecnico petrolifero Massimo Gaboardi.

In manette anche l’allora pm di Siracusa, Giancarlo Longo, per aver «mercificato la funzione giudiziaria»: su input di Amara, avrebbe avviato un’indagine priva di fondamento sul presunto complotto contro l’Eni. I magistrati ipotizzano «una regia occulta di Amara che, avvalendosi dell’asservimento di Longo, orchestrava un’operazione giudiziaria per ostacolare l’attività della procura di Milano».

IL FILONE MENEGHINO si intreccia con quello di Roma e Messina. Ieri in 15 sono stati arrestati per un’operazione congiunta delle due procure per frode fiscale, bancarotta e corruzione in atti giudiziari: avvocati, imprenditori, il giornalista Giuseppe Guastalla e il pm Longo accusati di aver «aggiustato» sentenze del consiglio di Stato. Il sospetto dei pm è che siano stati costruiti falsi dossier per spiare le inchieste, tra cui quella Eni (la società «auspica che si faccia quanto prima chiarezza sui fatti oggetto di indagine»).

A SIRACUSA NEL 2016 Alessandro Ferraro, stretto collaboratore degli avvocati Amara e Giuseppe Calafiore, denuncia di esser stato vittima di un tentativo di rapimento messo in atto da agenti segreti nigeriani e avvocati d’affari italiani. Durante il racconto tira in ballo Gaboardi che, interrogato da Longo, racconta di un presunto complotto internazionale ai danni di Descalzi. Le sue dichiarazioni vengono confermate da Vincenzo Armanna, entrambi alludono al piano per sostituire Descalzi con Vergine. Ferraro aveva precedenti con la giustizia eppure Longo, senza verificare le sue parole, apre un fascicolo e chiede la collaborazione ai colleghi di Milano.

SECONDO CHI INDAGA, l’inchiesta aperta da Longo aveva il solo fine di «introdurre elementi indiziari per sviare le indagini milanesi» e il vantaggio di «portare a conoscenza dell’Eni l’esistenza di un procedimento penale nel quale risultava coinvolta».

A luglio del 2016 Siracusa è costretta a trasmettere gli atti a Milano ma Longo notifica informazioni di garanzia a Zingales, Litvack e Vergine. Ferraro avrebbe pagato Gaboardi, Longo sarebbe stato il braccio operativo e Amara (già coinvolto in inchieste su rapporti tra procure e imprese petrolifere) il regista occulto. Ma a sollevare i sospetti sul pm di Siracusa sarebbero stati i suoi colleghi della procura: un loro esposto ha dato il via all’operazione di ieri ordinata dai pm di Messina.

LA TELECAMERA PIAZZATA dalla Gdf immortala Giancarlo Longo mentre cerca ovunque la cimice che è certo i suoi colleghi abbiano piazzato nel suo ufficio. Probabilmente qualcuno l’aveva avvertito. E’ finito tra i 15 arrestati di ieri, con lui anche un ex presidente del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio, accusato di corruzione in atti giudiziari per aver pilotato sentenze in favore del gruppo imprenditoriale Bigotti (finito nell’inchiesta Consip), che riuscì a ottenere un appalto di 338 milioni.