Fallujah è circondata: l’esercito governativo iracheno, insieme a milizie sciite e 4mila combattenti sunniti, stringe la morsa sulla città che più di ogni altra ha rappresentato dieci anni fa la resistenza sunnita all’occupazione Usa. Ora l’occupazione da combattere è quella islamista: l’Isis si è preparato all’attesa battaglia, con trincee e campi minati che nei giorni a seguire rallenteranno l’avanzata governativa e oggi impediscono la fuga dei civili.

Ma che Fallujah tornerà in mano a Baghdad le truppe sul campo lo danno per scontato, soprattutto dopo il dispiegamento, ieri, delle forze di élite irachene: la città sarà ripresa «entro qualche giorno, non settimane», prevedeva ieri Hadi al-Amiri, il capo delle milizie Badr, potente milizia sciita legata all’Iran. Dagli ospedali della capitale, dove sono ricoverati i soldati feriti in questa prima settimana di controffensiva, a prevalere è l’ottimismo: «Dopo Fallujah, marceremo su Mosul», dice il soldato Hakim: «Questa è la fine dello Stato Islamico», gli fa eco Abbas Mohammed dal letto accanto.

Da lunedì sarebbero almeno 110 i miliziani islamisti uccisi, tra loro la preda più importante: secondo il Pentagono nei raid aerei Usa a sostegno delle truppe irachene di terra è morto Maher al-Bilawi, il comandante militare Isis a Fallujah. A morire sono, però, anche i civli: secondo fonti locali almeno due persone sono state ammazzate e 20 ferite da missili dello Stato Islamico mentre tentavano la fuga dalla città. Altre 30 sono state uccise negli scontri a fuoco.

Alla fine Fallujah sarà liberata ma la vittoria costerà molto: costerà il sangue dei civili che la prevedibile guerriglia urbana farà scorrere e richiederà particolare attenzione per evitare un riaccendersi dei settarismi interni. La presenza di combattenti sunniti al fianco delle milizie sciite potrebbe aiutare a costruire la fiducia necessaria all’ingresso in città. Così come sta aiutando il corridoio umanitario che Baghdad ha aperto a nord-ovest e dal quale chiede ai civili di fuggire: per ora 507 famiglie (circa 2mila persone) sono riuscite a lasciare la città assediata, ma – dice l’Onu – sarebbero almeno 50mila le persone intrappolate nel cuore di Fallujah, usate dall’Isis come scudi umani.

La liberazione di Fallujah significherà molto sia per il “califfato”, costretto ad incassare un altro duro colpo alla macchina della propaganda interna, sia per il governo di Baghdad in un periodo di grave crisi politica. Non è un caso che giovedì il premier al-Abadi facesse appello alla popolazione della capitale perché evitasse di scendere in piazza per protestare contro il governo: rimandate le manifestazioni, ha detto il primo ministro, a dopo la campagna militare su Fallujah.

L’appello non è servito: venerdì, per la terza volta in un mese, migliaia di persone hanno tentato di entrare nella Zona Verde. Sadristi, ex-baathisti, indipendenti, poveri e attivisti – da Baghdad, ma anche da Najaf e Karbala – sono tornati in piazza con un obiettivo comune: il cambio al vertice. La polizia aveva fatto circondare Tahrir Square con blocchi di cemento e filo spinato e stavolta è riuscita ad impedire che i manifestanti si avvicinassero alla Zona Verde, 4 km quadrati fortificati dove si concentrano parlamento, ministeri e ufficio del premier.

In molti, soprattutto donne, si sono presentati di fronte alla polizia con fiori e ramoscelli di ulivo. La risposta sono stati i gas lacrimogeni. Alcuni colpi sono stati sparati in aria, a differenza di venerdì scorso quando i proiettili delle forze di sicurezza hanno ucciso 4 manifestanti. Per evitare i gas, qualcuno si è munito di maschera anti-gas, strumento che ha aiutato nel soccorso dei feriti.

La rabbia non cala, ma cresce con il prolungarsi del silenzio dell’esecutivo e del parlamento alle legittimi richieste del popolo, lotta alla corruzione e redistribuzione della ricchezza. In vista dell’estate la situazione in tal senso non può che infiammarsi: lo scorso anno furono il caldo torrido e i continui blackout a spingere in piazza gli iracheni, che vedevano nella mancanza di energia elettrica – in un paese che ha ricevuto miliardi di dollari per la ricostruzione – la misura della corruzione di Stato.