Se c’è un incubo quasi rimosso dalla coscienza collettiva, nell’era di una guerra calda che brucia il pianeta con la febbre di un virus così ostile da ammantarsi di incurabilità, è quello della catastrofe nucleare. Terrorizzati da orrori che si manifestano nella quotidianità con una violenza localizzata e imprevedibile, dimentichiamo gli ordigni che giacciono letali e definitivi in oscuri depositi, ognuno dei quali contiene la possibilità della Fine. Sembra esserci un limite alla quantità di paure che la mente umana può contemplare senza scivolare nel panico e nella follia. Qualcuno si potrà quindi legittimamente interrogare sul perché giocare, calarsi quindi in un ambiente virtuale stratificato, interattivo e plausibile, a videogame che ci riportano a realtà terrificanti come guerre e apocalissi. Non è come «danzare sulla tomba del mondo», come Stephen King scrisse all’epoca della stesura di The Stand?

Può essere, ma oltre il divertimento esplicito dell’attività ludica c’è in molti videogiochi una qualità educativa e formativa oltre che liberatoria. Come forma d’arte, industriale quanto vogliamo, ma comunque arte nuova e unica dopo l’invenzione del cinema, il videogioco interpreta il presente e se lo deforma tramite un’elaborazione fantastica e giocosa non perde tuttavia la potenza di un messaggio filosofico e propedeutico. Ecco quindi che arriva Fallout 4 di Bethesda per Playstation 4, XBox One e Pc, gigantesco gioco di ruolo d’azione e meditazione che ci trasporta in un’America devastata dalla guerra nucleare, una «cronaca del dopo bomba» che prende spunto, per poi distaccarsene a causa di una narrazione a tratti solo sufficiente, dalla grande letteratura dickiana della radioattività.

Tuttavia la narrazione tradizionale è quasi superflua in Fallout 4 poiché si tratta di un videogame dove il racconto scaturisce dalle esperienze soggettive del giocatore, dalle sue decisioni, dalla disponibilità ad arrendersi a quest’opera enorme per identificarsi in un «ruolo» e scrivere così un’epopea personale. Il gioco comincia con l’usuale costruzione del personaggio che poi interpreteremo per decine di ore, viviamo pochi minuti di una situazione familiare pre-bomba per poi fuggire mentre i primi ordigni deflagrano e ibernarci insieme a moglie e infante nel Vaut 111, costruzione sotterranea intesa per preservare il genere umano, o almeno chi è riuscito a permettersi un posto.

Ci risvegliamo dopo decine di anni a causa di una tragedia che non vogliamo anticipare e una volta fuori usciti dal rifugio inizia un’avventura della sopravvivenza dalla rarissima potenza di coinvolgimento. Siamo nei dintorni di Boston, un’area gigantesca che include la città, le sue periferie e una natura desolata. Il mondo non è più come lo ricordiamo, gli alberi si ergono ancora ma sono secchi e piegati nel rigor mortis di un inverno senza speranza alcuna di primavera, gli edifici sono arsi e ridotti a grotteschi ruderi, il cielo è cangiante e magnifico quanto sinistro, le acque brillano di radioattività, gli animali sono mutati in oscene parodie della loro antica forma e qualcuno di questi in mostri affamati.

Non siamo gli unici sopravvissuti, ma come insegna ogni invenzione post-apocalittica molti tra questi sono diventati spietati predoni o si sono trasformati in creature gorgoglianti e artigliate pronte a divorarci. C’è tuttavia una vasta rete di comunità che mantengono un’etica e si impegnano per una vita migliore, ci sono inoltre robot antropomorfi e non a cui non dispiacerebbe il dominio sui resti della nostra specie. Vaghiamo in un mondo dalla stratificata complessità sociale, urbanistica e ambientale.

Viaggiare per le terre desolate è un’attività che va svolta con lentezza, non solo perché correndo da un obiettivo all’altro il Game Over è davvero frequente, ma perché il realismo e la malata bellezza di Fallout 4 acquistano così la loro giusta dimensione. Conviene esplorare camminando piano, ammirando quando possiamo il tramonto scendere sulla terra decaduta e incendiarla di uno splendore dal fascino doloroso, o sederci sul rottame ancora stabile di una sedia presso un avamposto abbandonato per naufragare nell’oceano di stelle che brilla indifferente nella notte. In questi momenti di tranquillità, nella rara assenza di ogni pericolo, Fallout 4 comunica un senso di solitudine che è struggente ma gradito nell’epoca dei social e del tutto condivisibile.

È rara questa dolce, dolente stasi poiché i pericoli sono ovunque e affrontarli un propellente avventuroso e ludico che alimenta a dismisura l’immedesimazione nel personaggio e nel mondo di gioco, anche se bisogna essere pronti poiché le risorse scarseggiano e reperirle è un’attività necessaria e quotidiana, dal cibo alle munizioni delle molte categorie di armi reperibili. Talvolta possiamo utilizzare una possente armatura atomica che ci dona una difesa incomparabile agli stracci e alla corazze artigianali che siamo costretti a indossare, utilissima se non fosse che servono delle batterie per ricaricarla e sono davvero poche e nascoste.

Il senso di minaccia e la vastità dell’ambientazione ci fanno sentire inizialmente piccoli e impotenti, tanto che una volta trovato un luogo sicuro dove sistemare le nostre risorse si tende a restare fermi a lungo per fabbricare oggetti o perfezionarli, cucinare carni radioattive e verdure mutate o semplicemente per ascoltare la radio, da cui ancora risuona un canale che trasmette brani di musica classica. Poi il desiderio di muoversi, di incontrare altri esseri umani, di comunicare e di proseguire lungo l’intreccio della trama principale diviene impellente e si parte, certi che saremo sorpresi, emozionati e travolti.

Fallout 4 potrà non essere tecnicamente all’altezza della generazione di hardware più avanzati, soprattutto per ciò che riguarda le animazioni dei personaggi, ma il lavoro artistico di Bethesda nel disegnare un’ambientazione così estesa e varia è tale da farci dimenticare qualche bug o un generale pallore cromatico che annebbia leggermente alcuni dettagli, assente in altri videogame contemporanei.
Ciò che resta quando giungiamo al termine della storia portante, e che ci fa tornare ancora tra tanta desolazione in cerca di missioni trascurate e panorami non ancora ammirati, è il ricordo di una pericolosa quanto coinvolgente avventura che è divenuta un esperienza alla quale abbiamo partecipato in una maniera più fisica, emotiva che virtuale.

Un’esperienza fatta di gioie e dolori, rimorsi e soddisfazioni, una vita alternativa consumata in un luogo che dopo qualche tempo non appare nemmeno più composto da pixel, bensì uno spazio interiore, un intimo «atomic garden», come cantano i Bad Religion, dove la sopravvivenza non si simula, si esperisce grazie al legame profondissimo con il proprio alter-ego. La possibilità di un’immedesimazione così convincente è il miracolo nucleare benigno operato da Bethesda, che poi è il fine ultimo di ogni giocare con i ruoli, dai tempi del cartaceo Dungeons & Dragons.

Usciti dal crudele e illuminante giardino atomico di Fallout 4 è facile realizzare a cosa si debba una parte importante della sua facoltà di coinvolgimento. Le note orrende di questa marcia funebre elettronica così affascinante da vivere senza morire davvero sono già nel nostro mondo, risuonano cupe in un crescendo che appare inarrestabile, una musica cacofonica che rende luttuosa e oscura la nostra quotidianità. Sebbene la guerra oggi appaia diversa hanno ragione gli autori di Fallout 4 quando preludiano la loro opera affermando che questa non cambia mai. E’ sempre lo stesso mostro che muta come un’abominazione di Resident Evil.

Fuori dalle avventure così plausibili ma fittizie di Fallout 4 ci chiediamo atterriti perché la guerra dovrebbe cambiare proprio adesso. Il videogioco non risponde a questa domanda ma in esso c’è un vago consiglio indiretto: se la guerra non cambia sta a noi cambiare, affinché il mostro non si alimenti più della nostra violenza e possa perire maledetto come merita.