Meglio una prigione saudita o la miseria in Etiopia? Meglio nascondersi dalla polizia di re Salman o rischiare la persecuzione in casa?

È la domanda a cui Riyadh vorrebbe che 400mila lavoratori illegali etiopi rispondano al più presto: l’amnistia «concessa» dall’Arabia saudita ai clandestini del paese africano, rinnovata un mese fa e scaduta ieri, non ha dato i frutti sperati.

Secondo i dati del governo etiope, solo 60mila su 400mila (stimati, ovviamente, visto lo status di illegalità) hanno accettato di tornare in patria. A marzo Riyadh aveva minacciato di arresto entro 90 giorni gli etiopi illegali e per lo più impiegati nelle abitazioni private come lavoratori domestici e nei cantieri come muratori.

L’amnistia – che prevede l’uscita legale e non vieta un eventuale rientro in futuro – è stata concordata con l’Etiopia con cui Riyadh ha siglato a maggio un accordo per lo scambio di forza lavoro.

E ha dei precedenti: nel dicembre 2013 una misura simile fu presa dai Saud dopo retate di migranti illegali che scatenarono le proteste di migliaia di etiopi e condussero all’uccisione di alcuni di loro, oltre a pestaggi, stupri e furti di oggetti personali da parte della polizia. Il bilancio finale fu di 150mila etiopi rimpatriati con la forza.

Ma la miseria che li aspetta in patria e, in molti casi, le persecuzioni del regime etiope contro i dissidenti e gli oppositori politici fanno preferire la clandestinità in terra straniera. Scelta simile a quella di migranti di altre nazionalità con cui Riyadh ha tentato la stessa strada, migliaia di persone di cui è difficile dare un bilancio.

A monte delle amnestie (ma soprattutto delle deportazioni forzate) c’è l’interesse di numerose compagnie saudite che fanno affari sull’immigrazione legale, un giro d’affari consistente che si basa sulla distribuzione di migranti ai datori di lavoro privati e su contratti stipulati prima della partenza.

Alla base sta il famigerato sistema della kafala, una vera e propria schiavitù moderna: per entrare nel paese del Golfo serve uno sponsor – che sia il datore di lavoro o l’agenzia di collocamento – che da quel momento diventa «proprietario» del lavoratore.