Erano pronti a sferrare l’attacco decisivo al governo di Rosario Crocetta all’indomani della vittoria del Sì, ma la batosta presa in Sicilia ha stravolto i loro piani. Seppelliti dalla valanga di No, ben il 71%, il caterpillar dei renziani, che hanno dentro un po’ di tutto – ex An, ex Fi, ex Dc – s’è inceppato di colpo. E ora a Davide Faraone, il braccio armato del premier nell’isola, non rimane che stare alla finestra con la sua truppa spaesata, in attesa di capire quali saranno le mosse del capo. Sembra un pugile all’angolo il sottosegretario col petto sgonfio. E come il suo leader si rifugia in trincea. Ammette che in Sicilia «la sconfitta assume contorni ancora più clamorosi e inequivocabili» rispetto al resto del Paese e si assume «la responsabilità».

Le febbrili missioni di Renzi nell’isola, se ne contano una decina nell’ultimo anno, sono miseramente fallite. E anche chi un tempo faceva orgogliosamente parte della minoranza Pd adesso si lecca le ferite per aver seguito il premier nel baratro. Quasi l’intera classe dirigente dei dem esce con le ossa rotte dalle urne. In via Bentivegna, quartier generale del Pd, non sanno che pesci pigliare al cospetto di un elettorato che nel segreto dei seggi non ha seguito le indicazioni del partito.

Il tracollo è stato totale. Ovunque. Soprattutto nelle aree di bacino elettorale dei big, come ad Agrigento, dove il No è una mazzata per il ministro Angelino Alfano, e a Messina, dove i ribelli dell’Udc di Gianpiero D’Alia hanno clamorosamente perso la loro sfida e ora si ritrovano fuori dal partito e con un marchio, «Centristi per la Sicilia» con un share dello zero virgola. Un guaio per chi stava già lavorando alla poltrona di governatore nell’isola, dove si voterà il prossimo autunno: da Faraone a D’Alia e fino a Enzo Bianco a Catania, dove il No ha raggiunto un bulgaro 75%.

E’ una coalizione a pezzi quella del centrosinistra che sostiene il governo Crocetta. E accerchiata, non tanto dal centrodestra, pressoché inesistente ormai da queste parti: dai 5Stelle, la cui campagna anti-riforma è stata capillare, ma soprattutto da un elettorato che si è risvegliato all’improvviso. Il 56% dei siciliani – dato comunque basso rispetto alla media nazionale – si è recato alle urne, il 10% in più rispetto alle regionali del 2012: un saldo positivo di 400 mila persone. Un voto, è evidente, contro il governo Renzi, che nel tentativo estremo di accaparrarsi consensi nei suoi blitz in Sicilia ha promesso mari e monti, svelando un modo di fare che da queste parti conoscono bene dopo un ventennio di strapotere berlusconiano.

«Il no è un grido di allarme che viene dalle fasce più deboli della popolazione», ragiona il presidente Crocetta, che pure si era schierato per il Sì, sostenendo ora di averlo fatto per seguire la linea del partito. «Se c’è qualcuno che è convinto di avere il monopolio dei No, sappia che all’interno di quei No ci sono tanti elettori democratici, anche elettori di Renzi, di Crocetta e di altri esponenti – dice il governatore – Il voto va rispettato, è stato un voto di difesa della Costituzione». E ai 5S e a Forza Italia che invocano le sue dimissioni, risponde netto: «Non mi dimetto. Non ho assunto toni catastrofistici nel corso della campagna referendaria né l’ho collegata a ipotesi di governo. Non si capirebbe perché dovrei farlo dopo il voto».
Il governatore dice di non meditare «vendette» nei confronti dei malconci renziani, che pure lo assillano da almeno un anno e mezzo, però sa che gli equilibri potrebbero saltare da un momento all’altro. Dopo il voto si è confrontato col segretario dem Raciti e aspetta le mosse del Nazareno. L’intera classe dirigente siciliana del Pd è col fiato sospeso. I pochi che hanno votato No come il bersaniano Bruno Marziano, che guida il delicato assessorato regionale alla Formazione, mantengono un profilo basso. «Tutto può succedere», sussurrano dal malconcio Pd.