Le elezioni amministrative in Kosovo di domenica 3 rappresentavano una cartina tornasole sulla sostenibiltà dell’ accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina: un’intesa sottoscritta lo scorso aprile sotto il patrocinio Ue, a cui sono legate a doppio filo le speranze di integrazione europea della Serbia e della sua ex-provincia dichiaratasi indipendente nel febbraio 2008. Ecco perché l’attenzione internazionale era puntata sulle municipalità «ribelli» del Kosovo settentrionale, abitate compattamente da una popolazione serba che da anni rifiuta ogni contatto con le istituzioni di Pristina, e che per la prima volta è stata invitata dal governo di Belgrado a partecipare all’elezione dei propri rappresentanti nella cornice costituzionale kosovara.

La risposta arrivata domenica dalle quattro municipalità a nord della città divisa di Mitrovica è stata però negativa. In un’atmosfera di tensione, sono stati pochi i serbi del nord a recarsi alle urne, spesso sotto lo sguardo minaccioso e lo scherno di chi invece puntava al boicottaggio come forma di resistenza. In serata sono poi arrivati gravi incidenti, che hanno messo fine in anticipo al processo elettorale. Tensione alta soprattutto nella parte serba di Mitrovica, dove un gruppo di estremisti ha attaccato il seggio della scuola «Sveti Sava». L’aggressione, con tafferugli e la distruzione delle schede votate nel seggio, ha convinto l’Osce a ritirare i propri osservatori presenti nel Kosovo del nord.

Fino alla chiusura anticipata dei seggi, nelle municipalità del nord l’affluenza aveva toccato circa il 13%, ben al di sotto del resto del Kosovo, tradizionalmente segnato da basse percentuali alle urne anche da parte degli albanesi (il dato complessivo si è fermato domenica al 45%). Un risultato che apre nuovi punti interrogativi sulla solidità istituzionale dell’intero Kosovo, ma anche sulla capacità di Belgrado di indirizzare le scelte della comunità serba, soprattutto quella a nord del «confine invisibile» segnato dal fiume Ibar.

Più parti, sia a livello locale che internazionale, hanno già chiesto la ripetizione delle elezioni nel nord per il prossimo 1 dicembre, giorno dei ballottaggi, sottolineando la mancanza di legittimità dei risultati emersi dal voto. Di certo, il generale risultato deludente e la confusione di domenica segnano una doccia fredda per tutti gli attori impegnati nella ricerca di un più stabile equilibrio nell’area. Il governo di Belgrado, nonostante ripetuti appelli, non è infatti riuscito a convincere i serbi del nord nella bontà del recente cambio radicale di strategia, che fino a ieri prevedeva il muro contro muro contro Pristina, e oggi predica la linea morbida a favore del «sogno europeo» della Serbia, che dovrebbe concretizzarsi con l’apertura dei negoziati di adesione all’Ue il prossimo gennaio. Il flop di domenica rischia però di ricadere, e pesantemente, sulle speranze della Serbia.

Sconfitta anche per l’Ue, che aveva puntato a queste elezioni come punto di svolta, ma che, nonostante gli evidenti segnali di tensione (primo fra tutti, l’uccisione di un agente della missione Eulex a settembre) non è stata in grado di indirizzare il processo politico nella direzione voluta, né di prevedere e limitare le pressioni arrivate dai gruppi estremisti. Ora si cerca di correre ai ripari: forse già domani i premier kosovaro albanese e serbo, Hashim Thaqi e Ivica Dacic, potrebbero essere convocati a Bruxelles dall’Alto rappresentante per la politica estera Catherine Ashton.

Anche per Thaqi domenica è stato un giorno difficile. Le sue dichiarazioni cariche di ottimismo – «da oggi abbiamo ottenuto la piena integrazione del nord del Kosovo», aveva affermato a caldo – sono state smentite. Come se non bastasse, il suo Partito democratico (Pdk) è uscito indebolito dalle urne, rimanendo escluso dal ballottaggio più importante, quello per il sindaco di Pristina.