Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini non deve aver mai messo piede a Lashkargah, il capoluogo della provincia meridionale dell’Helmand da cui siamo appena tornati e dove vent’anni di presenza militare internazionale si valutano in vite perdute. E temiamo non abbia mai messo piede neanche fuori dalla base militare di Herat, dove si è recato l’8 giugno «per l’ultimo ammaina bandiera del nostro contingente: un momento toccante e straordinario».

Se fosse stato a Lashkargah, Herat o in tante altre città che abbiamo visitato in questi anni, se avesse incontrato gli afghani e le afghane, saprebbe che le parole pronunciate ieri nell’informativa al Senato sulla conclusione della missione militare risultano tragicamente vuote, qui. E vuoto, nonostante la strategia retorica adottata, appare anche il bilancio fatto del «più importante impegno militare delle nostre Forze armate fuori dai confini nazionali dalla Seconda guerra mondiale».

Sul fronte militare, della guerra guerreggiata, il ministro Guerini sa che non c’è alcunché da rivendicare, alcun numero da sbandierare, a parte quegli «oltre 50.000 uomini e donne in uniforme che si sono avvicendati in questi lunghi anni». La missione in Afghanistan è stata un fallimento. «Stabilità e controllo del territorio» non sono mai arrivati.

Al contrario, la presenza delle truppe straniere ha alimentato la propaganda e il reclutamento dei Talebani. Oggi più forti che mai sul fronte di battaglia e al tavolo negoziale, dove continuano a sedersi, pur con il freno a mano, in attesa che i militari stranieri finiscano di ritirarsi. È vicino anche il ritiro completo degli italiani: «a oggi sono stati rimpatriati 280 nostri militari e sono già defluiti dal teatro operativo afghano più del 70 per cento dei mezzi e dei materiali verso l’Italia», ha dichiarato Guerini.

Alle prese con il disimpegno, senza poter annunciare «missione compiuta», il ministro della Difesa Guerini nella sua informativa sposta il piano del discorso. Finisce per enfatizzare «la proficua cooperazione tra la componente civile del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e quella militare della Difesa». Elenca i «progetti di cooperazione civile e militare, per un corrispettivo di oltre 46 milioni di euro». Loda il PRT, il Provincial Reconstruction Team a guida italiana, attivo fino al 2014. Per il ministro si è trattato di una risorsa fondamentale.

Per le persone che abbiamo intervistato nelle province di Herat, Badghis, Farah per la ricerca Le truppe straniere agli occhi degli afghani (promossa dalla ong Intersos) è stato un errore. Promuovere insieme attività civili-militari, sovrapporre obiettivi di sicurezza e di ricostruzione ha provocato danni, messo in pericolo le organizzazioni umanitarie, ridotto la ricostruzione di lungo termine a un obiettivo di corto termine per la «conquista dei cuori e delle menti» degli afghani. Mai avvenuta.

Guerini sostiene inoltre che «è stata una decisione non facile» quella del 15 aprile scorso, quando la Nato ha formalizzato l’impegno sul ritiro delle truppe. Come se la decisione non l’avesse già presa per tutti il presidente Usa Joe Biden, mantenendo l’accordo di Doha con i Talebani. Che oggi ci sia una «recrudescenza di violenza» era «prevedibile», dice Guerini.

Certo, la situazione è preoccupante, ma l’Italia non abbandona l’Afghanistan, garantisce il ministro. Che finisce con il chiedersi «cosa sarebbe stato l’Afghanistan senza questi venti anni di presenza e di lavoro fianco a fianco con i governanti e la popolazione». Manca di domandarsi la cosa più importante: la guerra in Afghanistan andava davvero fatta?