«Caro sottosegretario la storia del servizio pubblico offerto da Radio Radicale è questa: nato nel ’76 come rimborso allo Stato del finanziamento pubblico di cui usufruiva il Partito radicale, contrario da sempre a quella norma, si trasformò poi nel ’94 quando vinse una gara pubblica. Negli anni successivi Radio Radicale ha continuato sempre a chiedere di rinnovare il bando, ma non era certo nelle sue possibilità farlo. Spettava al governo che non l’ha mai fatto».

Alessio Falconio, direttore dell’emittente organo della Lista Marco Pannella, risponde così a Vito Crimi. L’esponente pentastellato infatti ieri ha rivendicato la scure che a fine maggio rischia di far chiudere la storica radio che da mezzo secolo porta gli italiani direttamente nei palazzi dei poteri costituzionali. Senza filtri, come ama ripetere.

Una gara che Radio Radicale vinse perché fu l’unica a partecipare al bando, giusto?

Sì, perché il bando imponeva di non mandare in onda spot nella mezz’ora precedente e in quella successiva alle sedute parlamentari, oltre che durante, naturalmente. E che venisse trasmesso almeno il 60% delle sedute di Camera e Senato. Non ci sono radio commerciali che possano fare quel tipo di servizio. Inoltre, non è vero che non si può sapere come siano stati utilizzati i fondi pubblici perché ogni mese, ogni semestre e poi ogni anno, il Ministero dello sviluppo economico guidato da Luigi Di Maio procede con controlli serratissimi sul rispetto della convenzione.

Allora qual è la ratio delle scelte di Crimi?

Non lo so, evidentemente non apprezza o non ritiene essenziale il servizio. Mentre noi crediamo che il conoscere per deliberare è alla base della democrazia. Dunque se il governo bandirà una nuova gara, noi parteciperemo. Ma per assicurare la continuità del servizio e la vita di Radio Radicale chiediamo una proroga della convenzione che scadrà il 20 maggio prossimo.

Difendere una convenzione statale con l’organo di un partito politico non è però in contraddizione con il no dei Radicali al finanziamento pubblico ai partiti?

Direi di no, perché pubblico non è sinonimo di statale, intanto. La Lista Marco Pannella si è candidata in quanto tale, come soggetto politico, l’ultima volta nel 1994. Inoltre, dall’89 il Partito Radicale per statuto non si presenta alle elezioni. Il finanziamento di cui usufruiamo però non è a fondo perduto, è il corrispettivo per un servizio pubblico che viene svolto da 43 anni senza che nessuno se ne sia mai lamentato. Tanto che ci sono controlli mensili. E il servizio pubblico è una funzione che va assicurata ai cittadini, ha dei costi e non porta guadagni. In ogni caso, il Partito Radicale è sempre stato contro il finanziamento pubblico ma in favore della fornitura – rendicontata – di servizi ai partiti.

Qualche cifra sui costi della Radio?

Il contributo netto per la trasmissione delle sedute parlamentari era di 8,2 milioni annui, ora dimezzato. Poi c’erano i 4 milioni di contributi per l’editoria che vengono dati a rimborso e saranno abrogati dal 1° gennaio 2020. Soldi, questi ultimi, che noi abbiamo sempre utilizzato per l’archivio. Solo per i ripetitori spendiamo 4 milioni l’anno. Il costo del lavoro di 52 dipendenti – di cui 23 giornalisti e 28 tra archivisti, tecnici e amministrativi – è di 4 milioni circa. Un altro milione e mezzo è il costo del servizio fornito dalle squadre esterne, quelle che registrano, che fanno parte di società che lavorano solo per noi.

I vostri stipendi sono dello stesso ordine dei colleghi che lavorano nel servizio pubblico Rai?

Non credo, ma non è questo il punto. Non mi interessa fare le pulci agli altri. Il nostro servizio e quello della Rai non sono in competizione né in contraddizione.

Cosa pensa in generale dei tagli all’editoria voluti dal M5S?

Un grande Paese ha sempre una stampa autorevole. Questi tagli mettono a rischio la pluralità delle voci perché colpiscono testate come il manifesto o l’Avvenire che rappresentano mondi importanti. Se il manifesto ha 50 anni di storia, evidentemente rappresenta un pezzo di vita politica e culturale italiana importante. Queste testate sono fonti di cultura anche se non sempre riescono a trovare sul libero mercato ciò che permette loro di andare avanti.

Ma il mercato dell’editoria è davvero libero?

Sarebbe libero se ci fosse la possibilità di avere dei servizi, se tutti potessero accedere allo stesso modo a determinati servizi. La distribuzione, per esempio, ha costi più alti per i piccoli editori. Questo è un grosso ostacolo alla liberalizzazione del mercato. Il manifesto è esemplare in questo: 50 anni di storia testimoniano che c’è una ragione per esistere. Io credo che sia giusto salvaguardare l’esistenza di testate che rappresentano pezzi di Paese, che esprimono culture sia pur minoritarie, e che hanno dimostrato di svolgere un’attività giornalistica vera. Il manifesto sul mercato c’è. È giusto che possa continuare ad esserci.