Hanno fatto saltare l’autostrada, frammenti di corpi, auto e cemento proiettati nel cielo, tra Punta Raisi e Palermo. Hanno ucciso Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, agenti di scorta, e Alessandra Morvillo, per seppellire quell’uomo, quel magistrato. Giovanni Falcone aveva seguito la traccia dei soldi già per svelare il nesso tra mafia e Sindona. Si era poi fatto raccontate da Tommaso Buscetta il modo di pensare e di agire di Cosa Nostra, l’attaccamento alla “roba”, che non è solo è ricchezza ma è anche simbolo del potere, presidio del controllo del mafioso sul territorio.

Giovanni Falcone non si occupava tanto degli assassini al dettaglio e all’ingrosso, almeno non si occupava “prima” di loro. Perché sapeva che i killer si prendono, poi, a strascico se sei capace di mirare alla testa del serpente. Se sai fargli i conti in tasca e sei in grado di squarciare la trama dei clienti e dei committenti. Signori che frequentano salotti buoni, che non sfigurano accanto politici, esattori e imprenditori.

20 anni prima il Centro di iniziativa comunista del Manifesto siciliano, aveva già sostenuto in due campagne elettorali, nel 1971 e nel 1972, che la mafia era quella cosa lì, una borghesia parassitaria e intermediaria, capace di garantire consenso ai partiti di governo ma lesta in cambio a prendersi tutto. Una borghesia compradora che paralizza mercato e sviluppo, fa prosperare la corruzione e pretende omertà.

In quel tempo lontano la tesi che andava per la maggiore era tutt’affatto diversa: Cosa Nostra una banda di killer, la mafia sopravvivenza medievale. Così dicevano potenti e galantuomini. Un giudice siciliano, si chiamava Rocco Chinnici, pensava però con la sua testa e volle, nel pool di magistrati che stava costruendo sula scia degli agguati che insanguinavamo Palermo, anche un giovane procuratore della sezione fallimentare. Un vero segugio, capace di tracciare quello che tracciato non era, di risalire dai soldi al potere, appunto Falcone.

Sono trascorsi 27 anni da quel 23 maggio. E il nuovo che avanza, la destra seduta al governo, il ministro dell’interno del “prima gli italiani” tornano a parlare delle mafie come semplici bande di killer, siciliani, calabresi o nigeriani che siano. Ecco che il ministro dell’interno non muove un ciglio se un sottosegretario del suo partito sembra essersi adoperato per un amico, anch’egli consulente della Lega, che a sua volta era amico del “re dell’eolico”, Vito Nicastri, imprenditori di successo che i magistrati ritengono che gestisse il patrimonio personale di Matteo Messina Denaro.

Né si cura, il ministro, nemmeno dei guai che lambiscono gli avversari. Tace su quel Montante, ex delegato alla legalità di Confindustria, condannato a 14 anni per corruzione, sospettato di concorso esterno in associazione mafiosa, già sponsor principale della giunta di centro sinistra guidata da Rosario Crocetta! Quale mirabile par condicio!

Eppure penso che se Giovanni Falcone fosse tra noi, darebbe manforte a chi indaga sui Nicastri e i Montante. Proverebbe a dipanare la trama che li lega al potere politico e ai grandi affari dell’economia. Poi, a strascico, dei rapporti -se ce ne fossero stati- con il braccio militare del business mafioso. Ma è morto. L’attentatuni lo ha fermato e oggi temo gli toccherà l’insulto di essere santificato come vittima e dimenticato per quello che ha fatto. E per cui fu così odiato dai mafiosi da far saltare il mondo tra l’aeroporto e Palermo. A futura memoria

Che dirà Salvini, oggi a Palermo? Le persone presenti gli volteranno le spalle? E i telegiornali ricorderanno un altro eroe morto, dimenticando il magistrato vivo che perseguiva uomini potenti e “menti raffinatissime”? Gli affari sono affari. La mafia fa affari. E gli amici degli amici sono pronti a sacrificare questo o quel killer pur di salvare il sistema.

*Candidato nelle liste di La Sinistra