E’ verità ben nota, scriveva l’Economist qualche tempo fa, che un candidato alle elezioni presidenziali americane ha bisogno di dichiarare che, se sarà eletto, “farà i conti” con la Cina; ma, una volta presidente, intrattiene con la Cina, seconda potenza mondiale che presta soldi agli Stati uniti, normali relazioni diplomatiche. Nelle ultime elezioni presidenziali americane la retorica anticinese del candidato repubblicano Mitt Romney è stata esercitata con abbondanza: secondo lui la Cina dovrebbe essere contrastata dagli Stati uniti in modo diretto colpo su colpo; gli Usa dovrebbero poter vendere a Taiwan tutte le armi di cui lo Stato ha bisogno per difendersi dalla Cina; avrebbero dovuto fare la voce grossa sulla violazione dei diritti umani piú di quanto l’abbiano fatta.

In campagna elettorale, per parare il colpo, Barack Obama ha mostrato di voler indurire, se rieletto, la sua politica nei confronti della Cina. Schermaglie elettorali, secondo l’Economist, ma, in realtà, le buone relazioni continueranno fra le due maggiori potenze mondiali, e sarà una fortuna per tutti. Negli Stati uniti, come altrove, vi sono i falchi e le colombe. Fra i falchi, molti giornalisti occidentali non in grado di distinguere, come sa fare il settimanale inglese, fra retorica elettorale anticinese e realtà dei rapporti diplomatici fra le due maggiori potenze del mondo. Il G2 c’è ed è bene che ci sia.

Oggi, in numerosi articoli che si susseguono, il settimanale britannico ci descrive una società cinese in ebollizione che impone al partito comunista riforme e ci dice anche che il nuovo presidente cinese, Xi Jinping, si muove con serietà per realizzarle – fermo restando l’indiscusso potere del partito.

Alcune affermazioni dell’Economist vanno però messe in discussione. Questa, ad esempio: pochi oggi in Cina crederebbero nel marxismo, anche nel Pcc. Per un’aggiornata analisi sul punto marxismo-maoismo in Cina rinvio a Simone Pieranni (Il nuovo sogno cinese, manifestolibri, 2013), a Maurizio Scarpari (“Il ritorno di Confucio a Pechino”, il manifesto del 17 gennaio), a Brice Pedroletti (“Evitant le culte de Mao, pékin veille sur son héritage politique”, Le Monde del 27 dicembre).

La Cina oggi non vuole il culto di Mao, ma, per dirla con Pedroletti, «veglia sulla sua eredità politica»; non intende staccarsi dalla cultura marxista-maoista; intende invece innestarla sulla cultura millenaria della Cina, su quella confuciana e su quella, nuova e dirompente(per la cultura cinese), liberale occidentale.

Mao è morto nel 1976, ma in Cina vive ancora: e non solo in Cina, vive nel mondo (Henry Kissinger, On China, The Penguin Press, New York, 2011). Comunque, come già evidenziato, l’Economist è ben orientato: invita alla collaborazione Usa-Cina-Europa. Qui aggiungo che è ben orientato ma con un limite: confida nel G1, nella capacità degli Usa di guidare il mondo (“Look back with angst”, The Economist del 21 dicembre), senza tener conto del fatto che la cultura politica americana oggi è allo sbando. A mio avviso occorre invece puntare sul G2 (Usa-Cina), sulla maggiore “saggezza” (cultura politica) cinese, sull’”armonia”, sulla dialettica. Ma, ovviamente, questo è un altro discorso.