Nelle librerie dei paesi anglofoni è facile trovare per qualunque materia un compendio ‘for dummies’, pensato cioè per fornire anche ai più sprovveduti le nozioni basilari. Il libro di Giusto Traina La storia speciale Perché non possiamo fare a meno degli antichi romani (Editori Laterza «i Robinson/Letture», pp. VIII-208, € 16,00) si apparenta a quel genere per lo stile piano e accattivante, condito da uno humour bene affilato (lontano da quello un po’ stiracchiato che esibiscono in genere gli accademici quando tentano di essere arguti), ma per il resto è tutto il contrario di una rassicurante esposizione ‘mainstream’. Non è un manuale, ma – per dirla con l’autore – una «serie di quadri di un’esposizione». Quello di Traina è un pennello agile, a volte da caricaturista, ma sempre fedele al vero. Dall’alto della sua cattedra della Sorbona, egli prova a convincerci che la storia romana è una storia speciale, dalla quale per tanti motivi non ci conviene affatto liberarci.
Conviene, invece, disfarci il prima possibile di tante idées reçues che ancora hanno libero corso presso il colto e l’inclita. Una per tutte: quella che i romani salutassero col braccio alzato. È una fake news – se ne facciano una ragione certi nostalgici di oggi, calciatori e non solo – che dobbiamo al cinema, in questo caso non a quello americano (anche se è sempre valido l’assioma secondo cui tutto quello che sappiamo su Roma l’abbiamo imparato a Hollywood), bensì all’italianissimo Cabiria, il kolossal del 1914. Il lettore prenderà gusto a scoprire tanti altri casi analoghi, e magari rimarrà anche un po’ scioccato da certe rivelazioni, come quella che il famoso diritto romano «non fu mai davvero il diritto di tutto l’impero: né in senso geopolitico, orizzontale; né in senso sociale, verticale».
Traina non disdegna la cultura pop (quando gli serve usa anche i fumetti, da Topolino ad Asterix), ma questo non inficia la ‘serietà’ del libro. Uno dei suoi punti di forza consiste nel ridimensionamento degli abusati richiami alle cosiddette ‘radici’. È vero che certe parole fondamentali per la civiltà di Roma – religio, respublica, familia, imperium, libertas, populus e tante altre – suonano pressoché identiche nelle lingue moderne dell’Occidente, ma se andiamo a guardare da vicino scopriamo che si tratta di faux amis. La famiglia romana, per dirne una, comprendeva anche gli schiavi!
Non si può qui non ricordare la gustosa metafora del ‘ferro da stiro’ inventata da Beniamino Placido: «Quando affrontiamo gli antichi – diceva – ci armiamo di un ferro da stiro. Lo passiamo sugli antichi testi, per poter dire: ma guarda! gli antichi erano proprio come noi . Per fortuna, non è vero».
Già, questo è il punto: i romani non erano come noi. Traina fa sua un’affermazione di Paul Veyne: «Tra i romani e noi c’è un abisso, scavato dal cristianesimo, dalla filosofia tedesca, dalle rivoluzioni tecnologica, scientifica ed economica, da tutto ciò che forma la nostra civiltà. Ed è la ragione che rende interessante la storia romana, che ci obbliga a uscire da noi stessi, costringendoci a esplicitare le differenze che ci separano da lei».
Come ha scritto una storica inglese, Mary Beard, la Roma antica è un bersaglio mobile. Le angolazioni via via diverse da cui guardiamo a essa (gli studi di genere, l’antropologia delle immagini, la storia del clima, il perché del limitato sviluppo tecnologico e quant’altro) ci obbligano ad aggiustare continuamente la mira, a proseguire nel gioco del ‘trova la differenza’. Ecco perché non possiamo permetterci di archiviare la storia romana allo stesso modo in cui un compagno di università dell’autore aveva serenamente liquidato gli ittiti («E poi, via, io senza l’ittiti ci vivo bene!»). A parte il caveat di un antichista come Luciano Canfora («finora ci siamo liberati non più che della storia degli ittiti; ma forse, a ben riflettere, neanche di quella»), con i romani dobbiamo ancora e sempre confrontarci. Qualunque sapere non può non guardare anzitutto all’indietro, a un passato tutto sommato prossimo, ma che pure è, in quanto tale, una terra straniera. Sta qui il buon uso della storia romana a cui ci inizia Traina con questo libro, idiosincratico, certo, ma proprio per questo stimolante. Non si tratta tanto di ricercare supposte radici comuni né di compiacersi di dubbie identità, quanto di preservare una memoria culturale, che è cosa diversa.
Ci avviamo – che lo vogliamo o no – a essere una società multietnica in cui dovranno convivere culture diverse. I colonizzatori francesi facevano dire agli scolari algerini «nos ancêtres, les Gaulois». Far dire a un immigrato cinese o senegalese in Italia «i nostri antenati, i Romani» sarebbe, diciamocelo, altrettanto ridicolo. Ma da Roma dovremmo apprendere la capacità che essa ebbe, fin dalla sua fondazione, di integrare popoli diversi, di fare – e qui la lingua ‘geniale’ dei romani ci sta proprio bene – e pluribus unum.