È un’anteprima del Pd post-renziano quello che va in onda ieri alle 13 su Sky, poi in replica in serata. Confronto «all’americana» dei tre candidati alle primarie del Pd, un partito che è nato per «fare l’americano» ma non ci è riuscito. Lo ha fortissimamente voluto Roberto Giachetti, terzo nel congresso degli iscritti, lo ha concesso a malincuore Nicola Zingaretti, che nei sondaggi è dato solidamente avanti e come i favoriti deve innanzitutto gestire il vantaggio.

Toni civili, fra Zingaretti e Maurizio Martina c’è addirittura del fairplay. Il primo rinuncia a una replica per cedere al secondo l’appello agli elettori a nome di tutti. Il secondo si augura un milione di votanti ai gazebo, il primo è convinto che ne arriveranno di più. Sono prove, in realtà già in stato avanzato, di accordo fra il prossimo segretario e il capo dell’opposizione interna. Per evitare la scissione. Giachetti invece non la esclude: «Se il Pd viene portato con il M5s e rientrano quelli della Ditta, il Pd non è più casa mia.

Anzi, si chiude il Pd a prescindere». Zingaretti prova a scherzare: «Abbiamo la notizia. Giachetti non se ne va perché nessuno vuole fare l’alleanza con il M5S né riproporre schemi del passato». Ma Giachetti, da fan della «vocazione maggioritaria» veltronian-renziana, attacca la stessa idea di alleanza larga (e civica) di Zingaretti: «Ha il sostegno del ministro Minniti e contemporaneamente di una senatrice che ha definito le politiche migratorie di Minniti da schiavista». Non sono dettagli e non vanno sottovalutati.

Poi lo attacca per le posizioni del suo «braccio sinistro» Smeriglio (che vuole «scongelare il dibattito con M5S) e quelle del suo sostenitore Bettini (europarlamentare che a Bruxelles si è astenuto sulla mozione che riconosceva Guaidò alla presidenza del Venezuela). «Smeriglio ci ha aiutato a vincere un’elezione regionale, caso rarissimo nella storia», replica Zingaretti; quanto al voto di Bettini «è stata una scelta per rafforzare lo sforzo del commissario Mogherini, come ha spiegato lo stesso commissario». Le alleanze: «Non si tratta di rifare l’armata Brancaleone o la torre con pochi ma buoni. E poi c’è stata la sconfitta. La sfida è aprire una nuova fase, una ricostruzione, e radicarci tra le persone». Ma è il senso di «derenzizzazione» che aleggia nei suoi propositi di «rigenerare il Pd» a non piacere a Giachetti. I suoi affondi hanno il pregio di stanare, un po’, il futuro leader. E così alla domanda se cambierebbe il jobs act e reintrodurrebbe l’art. 18 dello statuto dei lavoratori risponde: «I lavoratori vanno tutelati in ogni settore. E il jobs act va cambiato».

Renzi non c’è, ovviamente, anzi poi dichiarerà di non aver neanche visto il confronto su Sky. Ma è il convitato di pietra. Romperà con il Pd che non può più dirigere? «Se Matteo, come ha detto di voler fare, il suo contributo lo vuole dare, se sarò segretario, sarà il più felice del mondo». dice Zingaretti. «Renzi è l’arma di punta della nostra opposizione. Io sono leale con quel progetto di 5 anni fa che ha fatto molto bene all’Italia», ribatte Giachetti. È la rassicurante favola renziana, gli elettori non lo hanno capito. Secondo i sondaggi però gli elettori, evidentemente duri di comprendonio, non capiscono neanche la scissione.
Ma il tema si porrà, anche prima delle scelte di Renzi. Zingaretti e Martina corteggiano Carlo Calenda. L’ex ministro propone al Pd un «fronte antisovranista» che nessuno vuole, ma che nessuno ha – per ora – la forza di escludere. Un nodo che dopo il 3 marzo verrà presto al pettine.