Nelle regioni di West e Central Rand, in Sudafrica, si estrae l’oro dalla fine dell’800. Ma quello che per le multinazionali è stato un vero affare, per i sudafricani è una catastrofe ambientale, sanitaria e sociale: per 130 anni i residui tossici dell’estrazione si sono riversati in fiumi e falde, contaminando l’acqua per sempre. Le leggi che oggi tutelano l’ambiente non bastano: anche le miniere ormai abbandonate continuano ad inquinare, perché i residui della lavorazione non sono mai stati messi in sicurezza.

In Indonesia, nel nord di Sumatra, i cercatori abusivi usano il mercurio per far agglomerare la polvere d’oro, lasciando che i fanghi venefici si asciughino al sole. Per la foresta pluviale di Ulu Masen, protetta come riserva, l’estrazione ha comportato deforestazione e inquinamento. Ci sono voluti anni di battaglie per delimitare un’area per l’attività mineraria a tutela della foresta, e anche così le comunità locali e gli animali selvatici sono minacciati dalla contaminazione. Ma le prime vittime dell’estrazione sono gli stessi minatori: per essere purificata, la pepita oro-mercurio viene bruciata. Il veleno evapora, viene inalato, si accumula su pelle e capelli. Gli effetti sono irreversibili: dai tremori alla demenza, dalla malformazione di feti alla paralisi. Compaiono però dopo molti anni, e i lavoratori sono troppo impegnati a sopravvivere all’oggi.

In America Latina l’estrazione illegale dell’oro rende più del narcotraffico: lo afferma il World drug report di Unodc (agenzia dell’Onu per il controllo della droga) del 2015. Solo in Colombia, i trafficanti di cocaina ed eroina gestiscono un patrimonio del valore di 1,5 miliardi di dollari all’anno; quello annuale dei trafficanti di oro ammonta tra 1,9 e 2,6 miliardi.

In Colombia e in Venezuela (tra le maggiori aree aurifere del mondo) circa il 90% dell’oro viene estratto in modo illecito. Lo scenario è lo stesso in Ecuador, in Perù, in Bolivia: qui, più che grandi multinazionali, operano piccoli cercatori, difficilmente controllabili dalle autorità ma facilmente ricattabili, che lavorano in condizioni insalubri, che deforestano e inquinano.
A Sumatra come in Sudafrica, a Madre de Dios nell’Amazzonia peruviana come nella foresta della Guyana, l’estrazione illegale dell’oro crea una spirale drammatica: le pessime condizioni di vita dei minatori sono legate all’inquinamento che essi stessi provocano; a lavorare in condizioni di semi schiavitù ci sono anche minori e donne, arruolate a forza nei bordelli che spuntano a ridosso degli accampamenti abusivi.

C’è qualcuno però che ha deciso di rompere l’equazione tra questo metallo prezioso e lo sfruttamento umano e ambientale: sono le miniere affiliate a Fairmined, etichetta che garantisce la sostenibilità ambientale dell’estrazione e il rispetto dei diritti dei lavoratori. Fairmined è nata grazie a una Ong colombiana, Alliance for the responsable mining (Arm), il cui scopo è quello di «trasformare l’attività dei piccoli minatori in un settore socialmente responsabile e sostenibile».

Tra febbraio e marzo, Arm ha organizzato il primo viaggio in Colombia per esperti del settore, che hanno visitato tre miniere Fairmined. Tra loro anche un italiano, Francesco Belloni, gioielliere milanese, il primo ad aver introdotto in Italia l’oro e i diamanti etici.

«Ma quale gioielliere ha mai incontrato il minatore?», anche a distanza di tempo Belloni non riesce a nascondere l’emozione: «Non avrei mai immaginato di avere questa possibilità 10 anni fa, quando ho acquistato per la prima volta dell’oro certificato. Poter vedere e toccare con mano le miniere che sostengo è stata la realizzazione di un sogno». E anche una conferma che questa sia la strada da percorrere, dove, come in America Latina, le terre sono ricche di minerali preziosi, ma la loro estrazione è difficile da controllare, perché in mano a tante realtà abusive. Nella sola Colombia rappresentano il 63% delle miniere; quello certificato Fairmined è il 5% dell’oro colombiano.

«Quando l’oro si trova nella roccia è inevitabile ricorrere a cianuro e mercurio. Ma queste miniere dimostrano che si può lavorare senza disperdere i veleni nell’ambiente, i minatori li chiamano circuitos cerrados». Questi circuiti chiusi permettono, per esempio, che la sabbia residua venga recuperata, decontaminata e poi riciclata come materiale di costruzione. La miniera funziona quindi anche come cava. «Quella di Iquira, a sud di Bogotà, è una agromineira, dove si estrae oro ma si coltiva anche caffè, due attività che sarebbero incompatibili nello stesso spazio, se l’estrazione non fosse a impatto ambientale zero». Cioè se il terreno e la falda acquifera fossero contaminati.

La miniera Coodmilla a La Llanada, e quella di Gualconda, a La Fortaleza, entrambe nel sud est della Colombia, sono due realtà più nuove, spiega Belloni, «e a maggior ragione vanno sostenute: io mi sto rifornendo a Coodmilla». Tutte le miniere affiliate a Fairmined sono cooperative, che dividono in parti uguali il ricavato dell’estrazione e delle attività collegate. Ad oggi rappresentano però davvero solo una minima percentuale dell’estrazione di oro a livello mondiale: oltre alle 3 realtà colombiane, ci sono solo altre 2 miniere d’oro certificate, in Perù e in Mongolia. Ce ne sono però molte altre che sono vicine ad ottenere il marchio Fairmined: in Bolivia, Senegal, ancora in Colombia e Perù, in Burkina Faso. Sono tutte realtà accomunate dalla volontà di estrarre l’oro senza pesare sulla terra e garantendo salari e condizioni di lavoro dignitose.

Una volontà, questa, bene espressa da Rolberto, lavoratore della Gualconda: «Rolberto ha parlato della grande responsabilità ideologica e ambientale dei minatori. Il suo sogno è una miniera che contribuisca al benessere della comunità, dove ci sia una ripartizione equa dei benefici. Ha concluso dicendo che estrarre l’oro non serve ad arricchirsi: estrarre l’oro è un lavoro onesto».