Appelli alla guerra civile, all’istituzione della legge marziale, immagini di cappi in attesa di essere usati per i deputati – sia democratici che repubblicani – che avevano tradito riconoscendo la validità della vittoria di Joe Biden alle elezioni del 2020. In un nuovo capitolo dell’inchiesta diventata nota come Facebook Papers, Washington Post e ProPublica hanno condotto un’analisi di circa un milione di post pubblicati sulla piattaforma fra il giorno delle elezioni e il 6 gennaio, gettando una luce ulteriore su quanto era già stato rivelato dai documenti consegnati al Congresso e alla Securities and Exchange Commission dalla whistleblower Frances Haugen.

IN PARTICOLARE, l’indagine si è concentrata sulle attività dei gruppi di Facebook, i «luoghi di socializzazione» su cui le più recenti politiche dell’azienda puntavano maggiormente per incrementare lo scambio fra utenti della piattaforma. L’analisi è così stata condotta, servendosi del machine learning, sui dati di 100.000 gruppi, cercando parole chiave riconducibili alla disinformazione e le fake news sui risultati elettorali – fra cui la parola d’ordine di chi ne contestava la validità: Stop the Steal – e ha trovato che ben 650.000 post rientravano in questa categoria, una media di 10.000 al giorno che però – osserva il Washington Post – è senza dubbio «una stima al ribasso» dato che non sono compresi i commenti, i post sui profili individuali dei membri dei gruppi, o sui gruppi privati.

Come raccontato da Haugen al Congresso e al parlamento britannico, nei mesi fra le elezioni e l’attacco a Capitol Hill, Facebook aveva ormai smantellato le misure di controllo eccezionali – definite «break glass measure» – implementate per fare in modo che il processo elettorale non venisse messo in pericolo dalla disinformazione sulla piattaforma: il fatto che le elezioni si fossero svolte senza incidenti aveva portato i manager della compagnia a ritenere che ormai si poteva allentare il controllo. Già il 2 dicembre veniva così smantellato il Civic Integrity Team, creato ad hoc proprio a questo scopo e di cui faceva parte la stessa Haugen. L’indagine ha rivelato poi l’esistenza di un’ altra task force di analisti – sciolta anch’essa all’indomani delle elezioni – dedicata proprio alla sorveglianza dei gruppi, che ne ha rimossi a centinaia prima del voto, tra i quali la quasi totalità di quelli collegabili a QAnon, bandito totalmente dalla piattaforma in quanto organizzazione terroristica dal 6 ottobre 2020. Secondo un dipendente dell’azienda sentito dal Post, l’esistenza stessa di una simile task force denunciava la tossicità inerente ai gruppi di Facebook, e il loro pericolo potenziale.

COSÌ COME LA CORSA ai ripari della compagnia mentre la violenza dilagava a Capitol Hill – quel giorno Facebook ha anche sospeso in via definitiva Donald Trump dalla piattaforma – mette in evidenza la tendenza a intervenire solo ex post, quando ormai la mancata sorveglianza ha già contribuito a fare danni irreparabili – come nel caso della persecuzione dei rohingya in Myanmar spesso denunciata da Haugen.
Facebook – che non ha ancora mai fornito alla Commissione d’indagine del Congresso sull’attacco al Campidoglio tutti i documenti richiesti- si difende dando la colpa dell’accaduto a Trump e alla sua narrativa sul furto elettorale. Ma come ha detto al Post un ex membro dell’Integrity Team l’azienda «si è disinteressata alla situazione nell’interregno fra le elezioni e il 6 gennaio. C’erano una valanga di contenuti in violazione delle politiche della piattaforma che altrimenti non sarebbero diventati pubblici».