«Soldi e voti. Ecco cosa ci vuole per fare una legge negli Stati uniti», spiega euforico Frank Sharry, fondatore di America’s Voice, organizzazione alla testa del movimento civile che lotta da anni per far passare una legge che regolarizzi gli undocumented d’America. «Solo qualche mese fa sarebbe stato impensabile. Avevamo i voti, ma ci mancavano i soldi. Ora che anche Facebook, Microsoft e altre compagnie sono dalla nostra, dopo anni di lotta, vediamo il traguardo».

La svolta è arrivata nel novembre 2012, quando gli analisti attribuiscono al voto latino, che conta per il 16% della popolazione, la rielezione di Obama e i repubblicani si rendono conto che non possono continuare a osteggiare una vasta regolarizzazione. Da quel momento si è spalancata la porta che da un decennio i democratici provavano a scardinare appoggiando, negli ultimi anni, il movimento per la regolarizzazione dei giovani immigrati diplomatisi nelle scuole americane, i cosiddetti dreamers (da Dream Act, il disegno di legge rifiutato dai repubblicani). L’ultimo spallata, la decisione di Obama del giugno 2012 di concedere ai dreamers la possibilità di fare domanda per un permesso di lavoro.

Frank Sharry, «America’s Voice»
«In America per cambiare una legge ci vogliono soldi e voti»

Ora la proposta di riforma presentata in seguito al spinta delle tech industries da un gruppo di otto senatori, repubblicani e democratici, punta a tenere conto del destino di tutti gli undici milioni d’immigrati irregolari d’America. E non solo dei dreamers o delle poche migliaia di talentuosi ingegneri asiatici che servono a portare avanti la rivoluzione tecnologica, che stanno tanto a cuore ai miliardari di Silicon Valley, quanto più in generale dei latinos di cui i repubblicani sono in cerca di voti. I più ottimisti dicono che se le ripercussioni degli attentati a Boston non dureranno troppo a lungo, il congresso potrebbe approvare il testo anche questa estate.

«Più che di fortunata, parlerei di tempestiva coincidenza», continua Frank Sharry, che rimane ottimista di fronte alla congiuntura tra partiti politici e grandi aziende. «Le multinazionali della tecnologia avevano già provato a far passare, forti dell’appoggio repubblicano, una legge che facilitasse le procedure per i permessi di residenza dei soli immigrati altamente qualificati, ma i democratici l’avevano bocciata perché sapevano che lasciare indietro la stragrande maggioranza degli undici milioni avrebbe significato una sconfitta elettorale. E le urne gli hanno dato ragione».

Ora che anche i repubblicani vogliono mostrarsi più tolleranti per recuperare voti latini, le big tech non hanno problemi a chiedere anche loro un path to citizenship comprensivo per tutti, ovvero una riforma per la regolarizzazione a più largo spettro. Ci hanno montano su una grande compagnia di marketing, Fwd.us, che camuffa i loro interessi, mirati a pagare meno gli ingegneri e ad accaparrarsi il meglio dei talenti asiatici, e al tempo stesso conferisce un’immagine progressista adatta al loro mercato globale, senza barriere. Come le reti sociali.

Che la scesa in campo di Zuckerberg sia una scelta interessata non sorprende. Il Washington Post ha rivelato i tentativi di Fwd.us di cancellare dal disegno di legge bipartisan il dovere delle aziende americane di assumere lavoratori americani prima di guardare altrove. E già l’anno scorso si era venuto a sapere che parte della moderazione dei contenuti di Facebook veniva subappaltata all’estero dove i lavoratori erano pagati un dollaro l’ora.

Tanto meno non sorprende che tale scelta sia stata coniugata secondo una precisa strategia di marketing. Non è un caso che campagne pro-riforma che coinvolgano grandi aziende nascano in California. Ci aveva già provato American Apparel con la sua Legalize LA. È qui che l’America si gioca il suo futuro, ed è qui che il 40% della popolazione parla spagnolo.

Ma a sciogliere ogni dubbio sulla natura opportunistica e non ideologica di Fwd.us, è la creazione da parte di quest’ultimo di due gruppi di opposta sponda politica: il repubblicano Americans for a Conservative Direction e il democratico Council for American Job Growth. Il primo difende una nuova securizzazione delle frontiere come parte della riforma tentando di non fare percepire al suo elettorato la vasta regolarizzazione come una amnistia. Il secondo capitalizza sul bacino elettorale latino e rilancia il mito del sogno americano di cui si ammanta la figura del presidente Obama.

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Fin qui tutto comprensibile. «Soldi e voti», ci ricorda Frank Sharry. È cosi che funzionano le lobby in America. Nel 2012 le lobby della Silicon Valley prese singolarmente avevano già speso 132 milioni di dollari in attività di pressione politica. Resta però da chiedersi quale sarà l’impatto a medio-lungo termine qualora le lobby continuassero nella cordata anche dopo la riforma sull’immigrazione.

Due cose sorprendono: la spregiudicatezza con la quale Fwd.us ha sostenuto la riforma dell’immigrazione e le manie di grandezza di una lobby sempre più cosciente del proprio potere d’influenza.

Ha fatto scalpore recentemente che la lobby conservatrice nata dalla costola di Fwd.us abbia sostenuto il senatore Lindsey Graham in South Carolina, uno dei repubblicani più schierato a favore della riforma, finanziando degli spot pubblicitari contro la riforma della salute di Obama e altri a favore della trivellazione della calotta artica. Fin dove è disposta ad arrivare Fwd.us pur di far approvare la riforma?

Le ambizioni di Fwd.us  non si fermano qui. Il memo che il presidente di Fwd.us, Joe Green, ha mandato ad alcuni potenziali sostenitori e pubblicato da Politico, parla chiaro. Secondo Green, tre sarebbero le ragioni per le quali l’industria della tecnologia potrebbe diventare «una delle voci più potenti» della politica americana: perché «controlla i canali di distribuzione di massa», perché «è molto popolare tra gli americani» e perché è sostenuta da «persone con molti soldi».

Il seguito blogger Adrian Chen, del sito newyorchese Gawker, pensa che la vera innovazione di Fwd.us sia stata quella di travestire la prosaica attività delle lobby, che viene ora pubblicizzata come un eccitante movimento sociale capace di «aggiustare» Washington, con strumenti politici inediti. Una sorta di Kony 2012 of cyber libertarianism, ispirato appunto alla campagna virale di Invisible Children, con l’obiettivo di far catturare il criminale di guerra ugandese Joseph Kony entro la fine del 2012, che ha attirato star e politici bipartisan.