Facebook ha rivelato i risultati di una sperimentazione svolta per suo conto nel 2012 che ha coinvolto 689.000 dei suoi utenti. Nella sperimentazione, condotta da docenti dell’Università Cornell di New York e dell’Università di California, è stato alterato il flusso dei post degli amici nelle homepage degli utenti usati come cavie a loro insaputa. Gli utenti sono stati divisi in due gruppi: coloro che (a causa del filtro introdotto da Facebook) hanno ricevuto meno post dal contenuto emotivo positivo hanno ridotto del 0,1% l’uso di parole positive e aumentato del 0,04% l’uso di parole negative nei post pubblicati da loro stessi; coloro, invece, che hanno ricevuto meno post dal contenuto emotivo negativo hanno aumentato il loro uso di parole positive del 0,06% e ridotto l’uso di parole negative del 0,07%. Sulla base di questo risultato minimo, ma statisticamente significativo, i promotori della ricerca ritengono che i social network possono influenzare i sentimenti dei loro utenti in senso positivo o negativo attraverso un processo di «contagio emotivo».

La rivelazione dello studio ha suscitato grande allarme: autorevoli giuristi hanno considerato la sperimentazione eticamente inammissibile e dannosa. La protesta è stata forte ma l’argomentazione che l’ha sostenuta debole e deviante: mettere l’accento (come hanno fatto tutti) sull’assenza di «consenso informato» asseconda una concezione dell’etica devitalizzata, appiattita sulle buone regole sociali, una cosmesi morale che lascia senza cura il danno vero.
Si teme che Facebook possa usare il contagio emotivo per influenzare in modo occulto le scelte dei suoi utenti a partire dai consumi per finire al consenso politico. Il pericolo esiste ma il problema vero è altrove.

Il contagio emotivo è un fenomeno ben conosciuto di cui Freud ha dato la spiegazione più concisa e rigorosa: è la propagazione di un sintomo patologico attraverso identificazioni inconsce collettive che riattivano nodi irrisolti e non adeguatamente rimossi che restano in agguato dentro di noi. Il contagio emotivo in quanto propagazione di un sintomo -un’impasse del desiderio che deforma la sua espressione e la sua soddisfazione deviandole verso la scarica compulsiva- lavora in superficie e il suo significato negativo sta proprio in questo: allontana coloro che coinvolge dal sentire e dal pensare ciò che vivono e li spinge ad agire senza far sedimentare e elaborare la loro esperienza.

La manipolazione dei sentimenti collettivi non insegue una loro trasformazione nella direzione di un’adesione sentita alla causa dei manipolatori bensì il loro ovattarsi che favorisce un’atteggiamento acritico, conformista.

La cosa più inquietante nella ricerca promossa da Facebook è lo scopo dichiarato di sperimentare tecniche che stimolino i suoi utenti a «impegnarsi». Il contagio emotivo favorisce un impegno nelle relazioni sociali senza profondità, privo di reale partecipazione e reciprocità che è difficile sciogliere e rinnovare. Niente è più coattivamente legante dell’impegno che non impegna veramente, che resta sterile e produce immobilità.

Il consenso informato se da una parte protegge dalla manipolazione più evidente e maldestra (che è la meno preoccupante), dall’altra parte oscura la manipolazione vera e propria che non è l’induzione a sentire in un certo modo ma la neutralizzazione dei sentimenti. Essere informati non significa essere consapevoli (spesso l’alterazione della realtà è a monte dell’informazione) per cui quando apponiamo la nostra firma su uno dei lati di un foglio non sappiamo cosa nasconde il suo lato oscuro.