Taci , o dì qualcosa di meglio del silenzio! (Salvator Rosa)
Un giorno l’arte si esprimerà attraverso statue in movimento. (Modest Musorgskij)
“Certamente , come scrive Freud, la sensazione dominante, il primo impatto con la statua, concerne il senso di immobilità cui segue la percezione della fissità dello sguardo dell’occhio di pietra . Se le statue sono più d’una si instaura poi un intreccio di sguardi su imprevedibili traiettorie.” Trovo questa frase in un libro fatto di foto e parole di Gianfranco Barucchello, Cosa guardano le statue (Danilo Montanari Editore) e ripenso al nuovo film di Fabrizio Ferraro Colossale Sentimento ( prodotto da Boudou Passepartout e ora distribuito da Zomia e Malastrada Film tanto nei cinema che nei musei), alla stupefacente capacità di filmare qualcosa che si deposita nel silenzio di pietra di due colossali statue barocce: un Cristo reclinato e un San Giovanni che lo battezza, con l’acqua che si pietrifica ( così come sgorgava acqua dalla roccia nel prodigio mosaico, e fu di fronte al Mosè michelangiolesco che Freud disse: “la pietra diventava sempre più immobile, una calma sacra, quasi opprimente emanava da essa, e io ero costretto a sentire che la statua rappresentava qualcosa capace di restare immutato, che questo Mosè sarebbe rimasto là, seduto e corrucciato in eterno…”.) Il film è un tragitto e un ritorno immerso nel silenzio della notte romana e solcato dai gesti del lavoro operaio. Si tratta di un gruppo scultoreo a opera di Francesco Mochi, artista della prima metà del XVII secolo, pensato per San Giovanni Battista de’Fiorentini e rifiutata dal committente, e intorno a cui aleggia un mistero di deambulazione, una “peregrinatio” che investe di una luce “maledetta” un artista restato in ombra nella Roma del Bernini. Il gruppo, detto Il colossale, percorre senza trovare la meta i 400 anni che ci separano dalla sua esecuzione. Come se la mastodontica immobilità di quelle statue e l’imminenza dei loro gesti ( far colare l’acqua battesimale e riceverla sul capo reclinato) reclamasse una messa in movimento continuo, lo spostamento delle immagini, la dislocazione di quei gesti: insomma reclamasse il cinema. Oggi nell’Anno del Signore 2016 “un gruppo di visionari decide di riportare la scultura a casa”: il film apparentemente è la visione di questo percorso, di un ritorno che sembra un mitico, omerico “nostos”. Le statue vengono dislocate, “smontate”, “rimontate”, avvolte da una struttura lignea ( e il modello originario era in legno e in stucco di Pietro Berrettini da Cortona), come se tornassero in una placenta, caricate su un camion scoperto, ricondotte nel buio della Chiesa, collocate laddove non erano mai state ma dove sarebbero dovute nascere, ed è come se l’ “incompiuto” magnifico del gruppo ( che di per sé essendo un battesimo rappresenta una seconda nascita, o meglio trae, come fa la grande scultura, da un vuoto in cui si deposita un pieno, la paradossale impossibilità di una rappresentazione e la destinazione del gesto artistico al suo auratico depositarsi nell’aria, come se stesse per muoversi e nascere e parlare ma lo facesse necessariamente con l’incompiuto, con una “apertura” all’ascvolto, all’eco di quella pietra silenziosa. Fabrizio Ferraro va conducendo con il suo cinema proprio una “peregrinatio” lungo l’asse della visione e dell’ascolto scegliendo di volta in volta, obliquamente, ciò che resta “fuori” dalla storia ufficiale, dal linguaggio dominante, dall’assordante rumore inane che spossessa oggi l’uomo dalla sua imminente necessità di guardare e comprendere e vivere il mondo e contro cui i corpi e le menti più aperte lottano titanicamente, aprendo accessi e varchi dentro il tessuto delle cose che si caricano di immaginario. Una rimbaudiana “fluttuazione livida ed estatica”, un “Bateau Ivre” che naviga nella notte e mette in movimento la dinamica nascente di quel battesimo, che resta in ascolto di una possibile “parola”, necessaria e politica, che quella pietra può proferire da un momento all’altro. Questa parola si evoca solo nel poter e saper filmare il silenzio, come fa Ferraro. Perché ciò che “dicono” le statue è anche lo sguardo che ci restituisco, e quella parola che sembra non desiderata racchiude in sé tutta la potenza desiderante delle immagini in fuga: ciò che è possibile, nella grazia giusta di un gesto poetico-politico del filmare, diventa necessario, e cioè ridare peso, consistenza, misura, giusta distanza, empatica prossimità, aperta profondità di campo, cura nel per-seguire il lento movimento che carrella e trasporta una reviviscenza che è anche una presa di coscienza della verità delle immagini e della necessità dei nostri gesti, che sono gesti di lavoro anzitutto, e il lavoro diventa appunto vita che si erge e, come in un Kolossal di “altissima povertà” , si incarna nella grandezza interna, qui ed ora, di una “rilocazione” del filmico e dell’immaginario. Succede come se le rovine incipiente di una guerriglia estetica si polverizzassero proprio riprendendo forma e in un moto di palingenesi le immagini distrutte riprendessero vita, risorgessero dal deserto e l’isteria uguale e contraria del gesto di abolizione, di distruzione, di sterminio iconoclasta non ce la facesse con il cinema così come con la vita e si depositasse ogni volta un senso “semper novus”, qualcosa di inconsumabile. Filmare la materia (pietra, marmo) la forma che quella materia ha assunto e la sua trasposizione nei secoli, una trasmutazione alchemica, ciò che di prezioso sembra aleggiare in una lontananza eterna e in una vicinanza immediata è quello che Ferraro imprende ( proprio come “impresa” mitica, fatica di Ercole, opera di liberazione) con Colossale Sentimento . Baruchello in quel libro parla di una carica magica, di un potere che si rapprende e che viene emesso, si trattiene ed emana, dalle pietre preziose, come il diamante in India di cui il Prete Gianni favoleggiava: “Praeterea inter cetera mirabilia nostrae terrae…habemus V lapides incredibiliter virtuosos”, ma queste pietre che emettono freddo e caldo, luce e oscurità vanno “poste sotto il cielo”, attivate da una vista assoluta che è una procedura magica. Allora ciò che perseguiva Tarkowskij: ‘scolpire il tempo’, o ciò che scriveva, e a cui consacrava un film, Rohmer sui Cahiers ‘la celluloide et le marbre’ si attiva nel grumoso e insieme denso e chiaro bianconero di Colossale Sentimento, immerso nella “luce della notte” che appunto si sente, di una Roma altamente sensoriale, in cui tutto sembra risuonare dal fondo, essere assorbito e restituito dal silenzio, solcato nel film dalle parole che hanno consistenza e scaturiscono come dal muoversi stesso delle dislocazioni, dei carichi e scarichi, del lento scorrere delle ruote del camion, del concreto e netto suono di carrucole e legni e martelli e ganci : è il lavoro umano, silenzioso e necessario che imprime reviviscenza all’epifania di un ritorno dell’arte nel suo luogo e di un ripartire da lì, semplicemente. Per questo mi è venuto da pensare a Fellini vedendo il film. Ora Fellini è un regista paradossalmente restato in parte segreto, e si direbbe per lui ciò che Cocteau ( altro amante di statue che prendono carne e vita e che sosteneva che il tempo è una questione di prospettive) diceva di sé: “ Penso che la mia visibilità costituita di leggende ridicole protegge la mia invisibilità”. All’inizio de La dolce vita quel Cristo enorme portato dall’elicottero nei cieli di Roma e che sorvola le terrazze dove la borghesia annoiata prende il sole, a metà di Roma i cantieri della metropolitana che perforano caverne in cui improvvisamente occhieggiano busti di romani antichi con gli occhi che sembrano ciechi eppure guardano non si sa chi e da dove e improvvisamente si sbriciolano e si riformano, e le notti dei palazzi di quel film come la notte selenica che chiude La voce della luna dicendo”se solo potessimo fare un po’ di silenzio qualcosa forse riusciremmo a capire”. Ecco, Fabrizio Ferraro affronta con lo sguardo alto ciò che è inascoltato e indesiderato. Comprendiamo come il suo prossimo film in lavorazione, prodotto da Lluis Minarro (che ha realizzato i film di De Oliveira, di Guerin, di Serra, di Apichapong…ed un regista anche lui, e di cui qui accanto dò il resoconto di un dialogo a distanza ), si chiami Gli indesiderati. Europa. e abbia a che fare con una singolarità, un uomo in “movimento” lungo la linea delle immagini e della vita, che trovò una lampeggiante fine (come un altro inizio), con le carte del “suo Angelo” in valigia, sulla frontiera di Port Bou: Walter Benjamin.