Uscita dalla pesante tutela della Storia del Costume, la Moda ha raggiunto la maggiore età. Lo si intuisce dal fatto che sulla sua vicenda evolutiva si cominciano a scrivere libri avvincenti come romanzi. Uno di questi è La moda contemporanea. Arte e stile da Worth agli anni Cinquanta (Einaudi, pp. 317, € 32, 00) primo dei due volumi con i quali Fabriano Fabbri si accinge a traghettarci dagli impettiti gonfiori della silhouette secondo Ottocento agli «sfregi» che su quella forma, mai davvero rimossa, perpetrerà il secolo successivo, nonché quello in corso. Che con questo lavoro non siamo di fronte a un’inefficace diacronia ritagliata secondo il gusto del momento, ce lo dice già il titolo, nel quale la parola «storia» non compare.

Fin dalla prima pagina, Fabbri assume il tono del saggista per il quale l’individuazione del tema è primo e fondamentale atto critico. Nel suo caso, si tratta di rispondere alla domanda propedeutica che egli stesso pone: qual è il senso di un abito? Per scoprire che, scartate le risposte più ovvie – riparare dal freddo, denotare uno status, soddisfare l’innato senso del pudore – non esiste una lingua che dica cosa fa un abito, così come non esiste una lingua che dica cosa fa una poesia, una sonata, un quadro.

Dall’eredità di Wölfflin
Un quadro? Ma se è proprio lì la risposta! Si sono scritti libri, si sono organizzate mostre e convegni, per illustrare quale potente acceleratore del desiderio vestimentario nasconda una maniera pittorica – un esempio per tutti: l’impressionismo; per scrutare, incistata nella storia dell’arte, la più documentata e fascinosa storia: se non proprio della moda, almeno del costume. Per molto tempo, tuttavia, non si è guardato così per il sottile.
Si scopre dunque il senso di un abito attraverso le arti figurative. Non i contenuti figurativi – il processo imitativo sarebbe troppo meccanico –- bensì le impostazioni formali che rendono pensabile una presentazione esclusivamente visiva del «reale». Fabbri risolve il problema ponendo la propria ricerca sotto l’egida dei Concetti fondamentali della storia dell’arte: il celebre studio di Wölfflin che, quando uscì, nel 1915, si guadagnò l’etichetta di «storia dell’arte senza nomi».

Ai nomi degli artisti Wölfflin aveva infatti sostituito le astratte e chiacchieratissime coppie bipolari – chiuso/aperto, lineare/pittorico, superficie/profondità – che dovevano mettere ordine all’empirìa di una critica dell’arte soggettiva e valoriale quale quella della fin de siècle.
È probabile che la critica della Moda versi oggi nelle stesse condizioni della critica dell’arte all’inizio del secolo scorso, e questa considerazione basterebbe a spiegare la scelta provocatoria di Fabbri. Ma già il sottotitolo di quella fondamentale opera modernista – Problema dello svolgimento dello stile nell’arte moderna – gettava un sasso nelle acque tranquille di un’impostazione esclusivamente formale. Lo «stile», con tutto quanto di idiosincratico vi è implicito, scombina il travaso del visibile nel dicibile. L’autore di La moda contemporanea mette tuttavia le mani avanti: le coppie, scrive, sono a perenne rischio di «scoppiamento». E allora?

Problemi di ricezione

E allora non resta che gettarsi direttamente nella Cosa, e cioè nel Romanzo. Un romanzo ha bisogno di personaggi. Ma il Romanzo della Moda intessuto da Fabbri rifiuta la personalizzazione. Era abbastanza facile evitare di intitolare i capitoli ai creatori, secondo la vecchia personalizzazione storicizzante. Molto meno facile evitare di addentrarsi nei problemi della ricezione: come «pratica incorporata» la Moda – che in questo senso è propriamente fashion, o fashioning, poiché indossare è sempre un lasciarsi plasmare – porta con sé l’annesso sentimento della corporeità. Ma anche questo più attuale tipo di personalizzazione è stato schivato da Fabbri, il quale scrive un Romanzo che non è né delle persone o personalità della moda, né dei suoi fruitori, bensì, impersonalmente, delle Cose e delle Forme incipienti. Ne sono attori da un lato i «memi» – geni memoriali impiantati nel pool genetico del patrimonio collettivo – e dall’altro i tessuti. I materiali, che con le loro differenti plasticità – durezze, granulosità, morbidezze, opacità, luminosità – scatenano l’invenzione dei creatori a riplasmare il confine tra corpo e mondo.

Spezzoni di materiale linguistico, scorie di quelli che furono linguaggi specialistici, non importa se delle scienze o della filosofia, scatenano ora l’invenzione di chi, scrivendo, sente il bisogno di plasmare una lingua propria, che sia rianimazione frankensteiniana e informale di quegli stessi materiali: «Balenciaga… avverte che per rifondare il corpo da capo a piedi, non deve modularlo sulla freddezza spigolosa della ratio euclidea, deve semmai rifarlo con un balioso zampillare di forze e di ilomorfismi (da hyle, materia)».
Come aveva detto Balmain, «Ciò che si inaugura non è più una nuova moda, è proprio una nuova specie umana». Di questa nuova specie umana il critico della moda si fa oggi romanziere.