Tutto accade in un arco temporale ristretto, un frammento del 1931, anno in cui è ambientato Fabian – Going to the Dogs (da giovedì scorso in sala dopo essere stato in concorso al festival di Berlino del 2021), il nuovo lungometraggio del settantenne regista tedesco Dominik Graf. Un periodo preciso, quello che vede l’inizio dell’ascesa del nazismo in Germania, viene portato in primo piano da un film che però guarda al passato per rivolgersi a un presente nuovamente minaccioso, abitato da nuovi totalitarismi che si stanno diffondendo in più parti d’Europa. E la rende, questa analogia, nella scena d’apertura, spiazzante, che crea un potente legame tra oggi e ieri.

SI TRATTA di un lungo piano sequenza in soggettiva con la macchina da presa che entra in una metropolitana, s’incammina lungo un binario con passeggeri che scendono e salgono da un treno, esce dalla parte opposta mentre, senza stacco, gli abiti delle persone cambiano e sul muro c’è un manifesto raffigurante una svastica – e un uomo in stato d’agitazione è appoggiato alla balaustra in cima alla scalinata che porta fuori dal sotterraneo. Il passaggio è fluido e il «messaggio» chiaro, diretto, privo di retorica, consegnato alla forza delle immagini.
Quell’uomo, lo scopriremo, è Jakob Fabian (ma quasi tutti lo chiamano con il cognome) ed è il protagonista di un film che sfiora le tre ore non mostrando mai segni di cedimento né narrativo né visivo, con sontuosità e profondità romanzesca e sguardo libero che permette di accostare una pluralità di espedienti formali evitando ovunque che si trasformino in mere tracce compiaciute.

JAKOB Fabian, trentenne, ha fatto la prima guerra mondiale (e come tanti altri uomini ne è stato duramente segnato), è originario di Dresda, vive a Berlino in una stanza in affitto, è sempre in ritardo sul lavoro e indietro con il pagamento mensile alla padrona di casa, ama scrivere e riempie quaderni annotando pensieri e situazioni alle quali assiste. È lui il perno di una narrazione che accoglie una moltitudine di personaggi e che, pur avanzando in modo cronologico, si avventura in una serie di deviazioni di percorso dentro le quali gli avvenimenti vengono «traslocati»: schermi multipli, un’immagine che accelera i movimenti dei corpi, didascalie da cinema muto per descrivere l’arrivo nel ristorante in cui Fabian si trova con la madre e la fidanzata Cornelia del produttore cinematografico Makart, filmati d’archivio dei tempi della Repubblica di Weimar inseriti come lampi a creare ulteriori raccordi spazio-temporali. Ricorrendo anche al Super 8, Graf di-segna una città e la sua varietà di abitanti, classi sociali, appartamenti mediocri e ville lussuose, bordelli, caffè eleganti e luoghi di ritrovo notturni. Frequentando uno di essi, Fabian incontra Cornelia. E sarà amore a prima vista, scoprendo che entrambi abitano nella stessa misera pensione e, sempre più, si trovano in difficoltà economiche.

LE SCENE che descrivono il loro innamoramento e la loro passione sono tra le più folgoranti di un film che afferma un punto di vista moderno nell’avvicinare un preciso periodo storico e lascia affiorare un sentimento truffautiano nel comporre la relazione tra parola, immagine e voci narranti, tra dimensione letteraria e cinematografica.
Cornelia sarà attratta dal cinema e diventerà una diva al costo di separarsi da Fabian. L’idealista Stephan Labude, amico di Fabian, si suiciderà. Fabian lascerà Berlino per tornare dai genitori. Ma l’amore tra lui e Cornelia non si è spento e solo un crudele atto del destino lo troncherà. Intanto, i nazisti cominciano a seminare la loro presenza nefasta in città, a sorvegliare, punire, assediare le sinagoghe e gli ebrei, mettere libri al rogo – come si vede nella scena finale.
Anche il romanzo omonimo del 1931 di Erich Kästner da cui il film è tratto, dopo essere stato censurato, subì la stessa fine, venne bruciato dai nazisti. Il mondo, come esplicita anche il sottotitolo, stava nuovamente «andando verso la rovina».