Inspiring, che dà ispirazione, è la definizione che più si ripete nei commenti su Youtube per Faber Navalis, documentario fatto di delicate immagini e di piccoli rumori prodotti da un lavoro antico: il maestro d’ascia. Maurizio Borriello lo ha girato in Norvegia, nel museo marittimo di Gratangen nella Lapponia norvegese, dove ha lavorato per 4 anni come restauratore di navi. Il film è completamente autoprodotto senza l’ausilio di nessuno il regista e l’unico protagonista, lo stesso Borriello, agiscono dietro e davanti la telecamera in un’atmosfera irreale.

Borriello, antropologo laureatosi all’Università l’Orientale di Napoli, è stato in Indonesia nel 2004 per una ricerca sulle modalità di trasmissione del sapere nella costruzione delle barche in legno dai maestri d’ascia agli apprendisti, passaggio che, secondo lui, risulta tra i più intangibili: “Se affettassimo una barca longitudinalmente e trasversalmente si troverebbe che ogni sezione ha una forma diversa. Da migliaia di anni i maestri d’ascia costruiscono barche in legno applicando praticamente quelle formule matematiche che i testi d’ingegneria adoperano per spiegare tali superfici composte”

Borriello fu colpito dal modo inusuale in cui vengono costruite le barche in Indonesia che rappresenta un unicum nel panorama mondiale: si parte dal fasciame esterno e non dallo scheletro centrale e dalla maestria dei costruttori artigianali di costruire le navi dal nulla tramite una conoscenza incorporata assorbita nei secoli e tramandata oralmente. Tuttavia l’acquisizione non era così scontata. Anche filmando i costruttori di barche e rivedendo i video c’era qualcosa che gli sfuggiva, un passaggio che non era percepibile neanche dal video se non attraverso l’osservazione partecipata: divenire maestro d’ascia.

Al fine di affinare la sua tecnica ha allargato l’esperienza indonesiana andando in Tanzania, in India, in Turchia, Finlandia fino ad arrivare in Norvegia artica dove nasce l’idea e l’esigenza di girare Faber Navalis. Il documentario nasce per rendere tangibile ciò che l’occhio umano non può percepire: “Il documentario voleva essere un esperimento di etnografia sensoriale, attraverso il film ho cercato di trasmettere lo stato interiore di chi costruisce le barche e la percezione nel fare questo lavoro”. L’aspetto straordinario di Faber Navalis sono infatti le inquadrature, girate in modo naturale da Borriello grazie all’esperienza di film maker maturata a Napoli e in Indonesia, dove aveva girato un altro documentario sull’universo culturale cinema indonesiano. “Applicando a livello soggettivo la teoria di Cartier Bresson per la fotografia, nel doc ho cercato di mettere sullo stesso asse l’occhio, il cuore e la mente del maestro d’ascia, del film maker e dell’antropologo. Se il film funziona credo che sia grazie all’intimità in questi tre ambiti: nell’utilizzo della camera, nel lavoro artigianale, nell’osservazione antropologica”, precisa il regista.

Gli oggetti di lavoro vengono messi in primo piano quasi microscopico: la sega, il martello, le pialle, gli scalpelli diventano così i protagonisti di un filmato quasi senza parole, dove i suoni del lavoro accompagnano lo spettatore dentro una narrazione intimistica e ancestrale.

L’inquadratura riprende dall’alto carrellando dalla poppa alla prua dello scafo in restauro che sembra un paziente in sala operatoria, un involucro che respira ma anestetizzato dal contatto con l’aria, con ossa di legno inermi, fasciate per eliminare la parte malata. Ossa che attendono una protesi, un nuovo arto, una nuova pelle per affrontare di nuovo il mare. Maurizio Borriello non si fa prendere dalla frenesia durante le riprese, continua impassibile il suo lavoro che scandisce il tempo ed i movimenti: “Posizionavo la cinepresa e, assorbito dal lavoro, me ne dimenticavo lasciandola correre per ore”. L’obiettivo inquadra da vicino il “pettine” di ferro per misurare la curvatura della tavola mentre i trucioli di legno lasciati dalla pialla manuale per la nitidezza sembrano profumare anche attraverso lo schermo, proponendo un parallelismo tra approccio artigianale al lavoro e alla cinematografia Da lì nasce la poesia del lavoro e dell’immagine che viene curata in maniera quasi maniacale, per dare narrazione dove non ci sono parole né musica, ma solo suoni del lavoro. Ciononostante la casualità degli imprevisti nella fase lavorativa viene cristallizzata nell’immagine rivelando un lato del tutto inaspettato: gli occhiali bagnati dal vapore impiegato per ammorbidire il legno da piegare, la morsa per puntellare una tavola con un chiodo che sfugge alla presa o il banale inciampo in un sasso coinvolgono e rendono lo spettatore partecipe in prima persona.

I colpi di martello sui chiodi per bloccare l’asse di legno sono come un ritmo tribale. I suoni e i rumori del lavoro rimandano a un tempo arcaico che riconduce tutto all’uomo e al legno, rimandano implicitamente ai maestri d’ascia di tutto il mondo dove l’uomo continua il suo rapporto intimo con la natura.

Il messaggio vuole essere molto più ampio e profondo, spiega Borriello: “Il film non è una storia, bensì un esperimento di fotografia e montaggio. Non voglio raccontare il modo in cui si costruisce o si restaura una nave, non è mia intenzione essere didascalico. Il mio approccio voleva essere più introspettivo, più metafisico, perché la mia speranza era di riuscire a trasmettere una dimensione interiore del maestro d’ascia. Sono felicissimo nel leggere le mail che ricevo da giovani di tutto il mondo che mi chiedono se posso insegnargli questo mestiere forse posso dire di esserci riuscito. Addirittura ci sono persone che vogliono fondare delle scuole con me. Ciò significa che c’è ricettività, che il mestiere è in grado di catturare l’attenzione”

Infatti l’aspetto da non trascurare è proprio la scomparsa della cultura dei maestri d’ascia, della costruzione delle barche in legno e di tutta la cultura millenaria. Non saranno solo le barche a scomparire, ma ecosistemi in cui l’uomo si è adattato alla natura. Forse quello che il regista in modo occulto ci rivela è che l’homo faber e il faber navalis vengono annichiliti e spazzati via dalla produzione industriale in cui il prodotto diventa oggetto d’idolatria, feticista, la cui breve vita è soppiantata immediatamente dall’ultimo modello.

Borriello è convinto che bisogna puntare su costruzioni navali sostenibili ed ecocompatibili. “Chi va al mare va per il piacere di stare in natura, bisogna tenere presente che costruire barche in vetroresina significa inquinare molto e ancora di più per il loro smaltimento. Queste non durano rispetto a quelle in legno che sono pienamente ecosostenibile e durare . Alcune delle navi che ho restaurato in Norvegia hanno circa 200 anni”, ci tiene a puntualizzare.

Mikes Filtzantizidis, maestro d’ascia greco, afferma che invece degli incentivi del governo di Atene per continuare la propria attività vorrebbe giovani apprendisti, perché sarebbe l’unico modo per quest’arte di non morire. Filtzantizidis è uno dei pochi superstiti alla decimazione dei maestri d’ascia causata dall’incentivo della legge europea per dismettere l’attività di pescatori nel Mediterraneo con il nobile fine di favorire il ripopolamento dei fondali marini. Ma ciò ha significato meno imbarcazioni da pesca e conseguentemente meno lavoro per molti faber navalis greci che hanno dovuto abbandonare l’attività.

“L’assurdità quale è stata?”, spiega Borriello, “Che la Grecia ha smesso di costruire e ristrutturare le imbarcazioni in legno e invece la Turchia ha reinventato la nautica tradizionale dimostrandosi in grado di rivitalizzare alcune economie del mare e stimolare un rinascimento della cultura marinara. Per evitare che questo mestiere si estingua occorre un’operazione semantica. E’ indispensabile che il maestro d’ascia si adatti al nuovo contesto ridisegnando la propria figura: internazionalizzato, multidisciplinare, aperto allo scambio di saperi e conoscenze, capace di bilanciare tradizione ed innovazione tecnologica, sensibile alla sperimentazione di design ed estetica, consapevole dell’importanza della comunicazione multimediale. Attualmente si sta andando nella direzione sbagliata: si stanno musealizzando questi manufatti, ed il sapere legato alla loro costruzione è andato quasi perduto perché in Italia i maestri d’ascia hanno un’età media di 70 anni e non hanno avuto modo, o forse voluto, trasmetterlo ai giovani”. Nel 2017 Borriello ha costruito un gozzo di 10 metri ed ora è alle prese con una barca a vela di 33 metri nello storico cantiere navale di Queen Elizabeth Award in Inghilterra, ovviamente tutto in legno.

Dopo i tre anni di ricerca in Finlandia, come progetto finale in Sustainable Boatbuilding, Borriello ha realizzato un prototipo proprio per le imbarcazioni per la pesca artigianale delle regioni colpite dallo tzunami nel Golfo delle Andamane. Il prototipo intendeva dimostrare come fosse possibile ottimizzare i metodi di costruzione tradizionali al fine di ottenere risultati accurati nel minor tempo possibile, usando utensili semplici facilmente reperibili e minimizzando lo spreco di materiale.

“Ritengo che lo sviluppo delle costruzioni navali in legno non abbia raggiunto il suo culmine tecnologico-estetico ma sia stato soltanto bruscamente interrotto dall’introduzione di nuovi materiali sintetici. Rispetto alla grande popolarità e diffusione dei prodotti in vetroresina, io credo fermamente che il legno possa rappresentare il materiale del futuro per la produzioni di imbarcazioni funzionali di autentica bellezza. Il legno è una materia naturale rinnovabile, versatile, duratura, ecologica. D’altra parte, la costruzione di imbarcazioni in legno secondo metodi tradizionali rappresenta un processo estremamente dispendioso in termini di tempi di lavorazione e spreco di materiale. In questi anni di ricerca  ho cercato di innovare il sistema di produzione attraverso l’applicazione di metodologie di lavoro mutuate da altri ambiti tecnologici e di combinare differenti tecniche di costruzione che ho avuto modo di apprendere e sperimentare direttamente durante la mia esperienza pratica in cantieri navali in Europa ed Asia. Una sintesi ibrida di antropologia marittima,  studi di design e tecnologie navali”, aggiunge convinto Borriello.

Un altro obiettivo importante era semplificare il processo di produzione in modo da renderlo accessibile anche ad un falegname senza conoscenze di tecnologia navale. Infatti subito dopo lo tsunami c’era l’esigenza di costruire molte barche ma non c’erano sufficienti maestri d’ascia, inevitabilmente quelle costruite da chi non aveva esperienza furono presto demolite perché si dimostrarono al di sotto degli standard di sicurezza. “Nello sviluppo del prototipo ho cercato di rispettare le forme dell’imbarcazione tradizionale, focalizzandomi unicamente sul miglioramento della tecnologia di costruzione senza alterare il design e le funzioni originali, consapevole che sarebbe stata più facilmente accettata dalla popolazione indigena”, sottolinea.

Borriello accenna all’approccio sbagliato di ingegneri navali provenienti dall’Australia, dall’Inghilterra, dalla Norvegia per aiutare le popolazioni subito dopo lo tsunami del 2004. “Bravissimi ingegneri ma insensibili alle necessità e specificità locali. Nel sud dell’India la costa ha una caratteristica morfologica dove non ci sono porti naturali, le imbarcazioni tradizionali sono sempre state costruite con il fondo piatto con lo scopo di permette ai pescatori di planare sulle onde, alzare il fuoribordo e rimbalzare sulla spiaggia. Questa operazione è possibile solo con una barca a fondo piatto che, per quanti difetti possa avere, è comunque il distillato di un’evoluzione tecnologica di secoli. Non si può arrivare dall’altra parte del mondo con un titolo di studio e pretendere da un giorno all’altro che le barche si costruiscano in un altro modo”

Maurizio Borriello non dimentica il legame con la sua terra di origine:

“Ritengo che il mio film non sia senza dialoghi, questi sono semplicemente spostati alla fine del film nelle parole in napoletano della canzone “La Costanza” di Francesco di Bella: metaverso poetico, che meglio di ogni altra spiegazione in voce fuori campo, descrive quella dimensione esistenziale nella quale mi sono interrogato sulla mia perseveranza e fragilità, forza e sensazione di inadeguatezza, bisogno di socialità e solitudine. L’idea di realizzare un video sulla dimensione sensoriale del lavoro manuale è nata ripensando a quando a Napoli i passanti si fermano, come a guardare la performance di un artista, i movimenti coordinati dell’asfaltista che cola con un gesto ininterrotto la pece fusa tra i basoli di pietra: spettacolo di un’inspiegabile potere ipnotico che mi riportava alla mente le parole dell’antropologo Alfred Gell: “L’Incantesimo della Tecnologia è quel potere che i processi tecnici hanno nell’ammaliarci in modo da farci vedere il mondo reale in una forma incantata”

In Faber Navalis Borriello accende il carbon coke, batte sull’incudine il ferro incandescente con un martello dal quale crea uno scalpello da calafataggio con la punta piatta ed allargata da usare per infilare la canapa tra i fasciami dell’imbarcazione. Sono tutte operazioni e movimenti che nella società post-moderna sono quasi dimenticati. In un’altra fase tocca lo scafo dell’imbarcazione che ha appena levigato, l’odore del legno sembra vibrare nell’aria mentre il suo sguardo si posa soddisfatto su quelle curve che sembrano ormai far parte di lui. La musica dei titoli di coda attacca, la porta del capannone ripresa dal basso si stacca dalla parete e per un attimo si è disorientati come se tutta la struttura si stesse muovendo e la penombra cala sul paziente di legno, come per riportarci al presente dopo una lunga ipnosi davanti allo schermo.

BOX

Il film ha fatto il giro del mondo in diversi festival: San Francisco International Ocean Film Festival (USA), dove ha vinto il primo premio; IntimateLens – Festival of Visual Ethnography (Italy) (menzione speciale); Open Art Short Film Festival (Germany) (2nd prize for Best Director of Photography and 2nd prize for Best Fine Art Film).

Faber Navalis è presente all’Iran International Documentary Film Festival.

Faber Navalis di Bandar Lengeh

La stella luminosa di Farghad risplendeva nella notte, il muallem la scrutava con il cannocchiale per intercettare nubi di cattivo presagio, poi guardava la bussola e girava il timone in direzione di Bassora in Iraq accompagnato dallo scricchiolio delle assi di legno della lunga lenjes. Così si navigava quando le tradizioni e il sapere venivano ancora tramandati da padre in figlio a Bandar Lengeh, nel sud dell’Iran, quando ancora le grandi imbarcazioni di legno venivano costruite a mano, quando si imparavano i nomi dei venti, si imparava a governare una barca e a tracciare rotte con il goniometro. Era un tirocinio che iniziava da piccoli, gomito a gomito con il proprio genitore. Poi gli scafi in vetroresina hanno sostituito quasi completamente quelli in legno e il Gps traccia le vie del mare al posto della bussola persiana.

“I battelli di legno sono migliori di quelli in vetroresina”, afferma orgoglioso il giovane capitano trentenne Mohamed Salman, la sua voce è accompagnata dal martellare incessante, dal lavoro alacre per il restauro della sua lenjes, nome con cui vengono chiamate le lunghe imbarcazioni tradizionali in legno di questa regione dell’Iran affacciata sul Golfo Persico e divenuta nel 2011 Patrimonio dell’Unesco. “Riparare una barca in legno è molto più facile di quelle in vetroresina e rispetto a queste durano molto più a lungo”, afferma Salman. Durante l’inverno le lenjes vengono ritirate nei cantieri navali per la cura di bellezza annuale che permetterà di affrontare i continui viaggi verso Dubai, Doha, gli Emirati e l’Oman. Le imbarcazioni vengono interamente smantellate, le lunghe assi marce vengono rimpiazzate e il legno deteriorato dalle intemperie viene levigato per essere rimesso a nuovo. Tutto è in legno nelle lenjes, dal timone, alla cambusa, alla cabina di comando del capitano, solo il motore e l’elica sono in ferro, il resto, da circa 4000 anni, segue l’ingegneria nautica degli antichi navigatori persiani.

Secondo il sito dell’Unesco il declino delle lenjes è costante, il numero di rivenditori di barche in vetroresina è in aumento mentre quelli delle barche di legno sono stati lentamente si sono trasformati in piccoli cantieri per la riparazione. Così la diminuzione della domanda per le barche in legno sta portando alla scomparsa dell’ingegneria per costruire le lenjes, un sapere orale, di cui non esistono testi scritti, ma solo parole trasmesse da un anziano esperto ad un giovane apprendista. I costruttori delle lenjes non hanno un sindacato per far valere le proprie istanze e per risolvere i problemi, inoltre i bassi salari sono un incentivo per l’abbandono di questo tipo di artigianato millenario.

Mohamed Abdallah, 55 anni, veste la galabeya, la tunica tipica delle popolazioni arabe che vivono questa parte dell’Iran, in testa la kefiah palestinese, il pizzetto bianco e la pelle scura. È proprietario di una lenjes che stanno restaurando, ma non ne è il capitano, solo l’armatore che gestisce il traffico di merci con Dubai e Abu Dhabi. Abdallah rivendica il ruolo chiave che le lenjes hanno per il commercio nel Golfo Persico, della grande capacità della stiva e la sicurezza dell’imbarcazione nell’affrontare il mare grosso. “Commerciamo soprattutto frutta e verdura con gli Emirati, al ritorno carichiamo la nave con stoccaggi di materiale industriale per i commercianti di Bandar Lengeh. Il lavoro non è male”, afferma Abdallah, anche perché con il ridursi della concorrenza chi rimane ha più ampi spazi di manovra.

“Durante la traversata ci sono circa 10 persone che amministrano la nave. Oggi i viaggi sono relativamente brevi, 8 ore per arrivare a Dubai e circa 2 giorni per raggiungere l’Oman”, commenta ancora Mohamed Salman. Distanze irrisorie se si pensa che nei secoli passati le lenjes arrivavano fino in Iraq, in Kuwait, in India, nel Bangladesh e in Africa e costituivano il top della marina degli scià di Persia. Ormai sono pochi i marinai che lavorano sulle lenjes, altri preferiscono rimanere in cantiere e occuparsi delle riparazioni. La ristrutturazione comporta una spesa di circa 150 mln di rial per un armatore (circa €4000) e ovviamente il temporaneo blocco del commercio con l’altra sponda del Golfo Persico.

Un altro motivo per il quale le imbarcazioni in legno diminuiscono in popolarità è la pesca, lo spiega bene il capitano Ahmed Abdalla: “Ho 40 anni e da circa 20 lavoro a Bandar Lengeh, sono un pescatore e uso un vascello in vetroresina perché sono migliori per andare fino alle coste degli Emirati per pescare, le lenjes sono buone per il trasporto, non per la pesca”, assicura. Ma i grandi spostamenti di merce vengono ormai fatte dalle navi cargo e per le lenjes l’unico modo di sopravvivere è continuare a navigare nel mar Persico e sperare che il commercio con l’altra parte del Golfo non s’interrompa mai.

Maurizio Borriello, antropologo e maestro d’ascia ha un’idea precisa a riguardo: “Le barche in legno possono avere per il miglioramento delle condizioni di vita delle comunità rurali attraverso lo sviluppo di tecnologie appropriate per il trasporto su vie d’acqua. “Per molte comunità isolate, costruire strade è un’operazione difficile da realizzare e molto costosa, invece implementare le vie fluviali esistenti costituisce una soluzione pratica con risultati immediati, specialmente in un ambiente ecologico fragile. Costruire barche crea lavoro, facilita l’accesso a opportunità economiche e a servizi di base. Inoltre, il trasporto su acqua opera con una maggiore efficienza energetica per unità trasportata, ciò costituisce un vantaggio economico ed è ecologicamente sostenibile”. Borriello è anche produttore e regista del documentario Faber Navalis (che è visibile su Youtube https://www.youtube.com/watch?v=NtQDbJXh1oY) con il quale ha vinto il San Francisco International Ocean Film Festival (USA), e partecipato a molti festival internazionali e non ultimo all’Iran International Documentary Film Festival dove è stato presentato da Gianfranco Rosi.

Il futuro per le imbarcazioni di Bandar Lengh non sembra roseo: “I giovani non vogliono avere niente a che fare con la navigazione”, afferma sconsolato Mohamed Salman, “Preferiscono le nuove tecnologie e stare seduti dietro una scrivania”, suo padre Hassan annuisce alle parole del figlio. Non sono molti rimasti a continuare la tradizione, soprattutto per i bassi salari e per le grandi risorse fisiche e monetarie da impiegare. Eppure le parole continuano a scorrere da padre in figlio: vele, venti, nodi, tramonti per capire possibili temporali e i racconti degli anziani continuano a narrare di uomini e marinai che solcavano il mare verso nuovi orizzonti da scoprire.

I lavoratori sono appollaiati come uccelli sulle impalcature, con il martello e gli scalpelli infilano pazientemente la canapa tra le fasce di legno della chiglia, altri tagliano spesse travi con la motosega mentre alcuni pennellano la chiglia con rulli impregnati di pece. Sono i maestri d’ascia persiani che purtroppo, come nel resto del mondo, sono in via d’estinzione. Artigiani che, come afferma Borriello, posseggono una capacità unica: “In qualsiasi spiaggia del mondo quando si chiede ad un costruttore il modo in cui traccia una curva, darà sempre la stessa identica risposta: ad occhio! I maestri d’ascia partono completamente dal nulla, impostano l’elemento longitudinale, la chiglia, poi impostano la costola della sezione maestra, dopo di che applicano una serie di righelli di strisce dalla prua alla poppa. Queste strisce danno un canovaccio alla struttura, poi il vuoto che rimane viene riempito dai maestri ad occhio con le costole mancanti sagomate con l’uso dell’ascia. Quando ero in Indonesia mi domandavo quale fosse l’arcano segreto e l’unica risposta in ambito antropologico risiedeva nella “Embodied knowledge”, cioè quel tipo di conoscenza preriflessiva in cui il corpo “sa” come agire e coordina i movimenti senza la mediazione di rappresentazioni mentali. Come nell’esempio dell’andare in bicicletta o come si procede in cucina per l’aggiunta empirica degli ingredienti, del tempismo nel sequenziarli e del sale “quanto basta” … senza dosi ponderate, è una conoscenza che è incorporata dall’esperienza”

Il lavoro segue incessantemente nel cantiere navale di Bandar Lengeh, l’odore del legno s’impasta a quello della pittura e del mare, l’inverno è alle porte ma il clima è ancora mite, le imbarcazioni rimarranno ormeggiate al porto aspettando la prossima primavera quando i venti saranno più clementi e le lenjes torneranno di nuovo a essere per un breve periodo dell’anno le padrone del Golfo Persico.