A quindici anni dalla scomparsa di Fabrizio De André, il regista Gianfranco Cabiddu, l’autore del meraviglioso Sonos e Memoria (film di montaggio con immagini d’archivio d’Ichnusa e del suo folklore, dagli anni ’30 in poi, orchestrazione musicale live di Paolo Fresu)realizza un nuovo documentario, Faber in Sardegna. Uno sguardo privato e affettuoso al complesso rapporto tra il cantautore ligure e la terra dove scelse di andare a vivere, Portobello di Gallura, a dodici chilometri da Tempio Pausania, con l’aiuto decisivo di Dori Ghezzi che ha fornito ricordi,informazioni e grande collaborazione.

Un lavoro di struggente bellezza, e suggestione emotiva, con le voci e i suoni che s’impastano ai paesaggi incontaminati, personaggi ignoti e amici famosi, presentato domenica sera in anteprima all’Auditorium Parco della Musica di Roma (uscirà nelle sale a gennaio) con un entusiasmante finale dal vivo, affidato al trio composto da Maria Pia De Vito alla voce, Rita Marcotulli al pianoforte e Paolo Fresu alla tromba che hanno «reinventato», con passione e intelligenza, alcuni brani come Amore che vieni Amore che vai e La canzone di Marinella.

Prodotto da Raicinema, il film è in continua altalena tra passato e presente, spezzoni di filmati familiari e interviste ai suoi (pochi) conoscenti, ecco apparire l’Agnata («una follia tanto amata che si chiama Agnata» dice Dori), la grande tenuta di boschi, prati e montagne, un’oasi verde dove, negli anni dal 2005 al 2011, si sono tenuti concerti acustici per il festival Time in Jazz (di Berchidda), organizzato da Fresu, con personaggi come Ornella Vanoni, Teresa De Sio, Cristiano De André, Morgan, Gianmaria Testa, Danilo Rea, Lella Costa (frammenti tutti godibili e insoliti) che rileggono a modo loro il canzoniere dell’anarchico poeta di Mille papaveri rossi. Una splendida eredità portata avanti con lo spirito di tanti amici che si ritrovano per il piacere di cantare quelle «gocce di splendore».

Alla metà degli anni ’70 quando De Andrè decide di fare l’acquisto di una casa diroccata, senza luce né telefono, con tantissima terra attorno e una fonte annidata lì vicino, sembra l’ennesimo passo in direzione ostinata e contraria, un ritorno all’Eden naturale con la scusa di mettere su un’azienda agricola e trasformarsi in contadino e fattore. E invece Fabrizio chiede consiglio ai contadini locali, studia sui libri come curare e potare le piante, prende un gruppo di animali (comprese alcune vacche di razza francese, più adattabili al clima dell’Agnata), sposa in pieno la sua nuova condizione di allevatore e coltivatore diretto quasi come fuga dalla mondanità dell’universo musicale, pur investendo gran parte dei suoi guadagni per riadattarla e ristrutturarla, approfondendo la cultura sarda e imparando a parlare il gallurese.

Proprio Filippo Mariotti, il fattore e il prezioso consigliere tuttofare racconta un episodio curioso e surreale; un pomeriggio con Fabrizio affacciato alla finestra che si guardava intorno poi si è rivolto verso di me e mi ha chiesto: «Filippo, tu cosa pensi delle nuvole?» (nel 1990 uscirà l’album dallo stesso titolo, pensato e scritto in terra isolana). Non viene risparmiata nemmeno la cronaca più difficile, il rapimento dell’agosto 1979, e le difficili trattative attraverso le parole di Paolo Casu e Salvatore Vico, le persone che l’avevano aiutato sin dai primi passi in Gallura; la vita di ogni giorno, dal battesimo di Luvi nella chiesetta limitrofa, alle scene raccapriccianti di una caccia al cinghiale; una processione campestre con picnic e una gita in barca pescando col figlio. «Quando arrivai in Sardegna e acquistai la casa a Portobello di Gallura, mi innamorai subito sia della natura che della gente…- dice De André – La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi».

Nelle immagini ogni tanto fa capolino anche la sua voce, calda e appuntita, e il film si chiude su un’immagine quotidiana, consueta e terribile. Fabrizio De André di spalle che cammina lentamente per una strada di campagna, in terra battuta, l’immancabile mozzicone di sigaretta tra le dita, una boccata e lo butta via perché è finito, fa un passo e subito ne accende un’altra. E riprende ad andare avanti.