Da più di un mese, uno dopo l’altro alcuni tra i più importanti poli industriali statali dell’Egitto sono entrati in fibrillazione. E la tensione cresce di giorno in giorno. Prima un grande stabilimento tessile, poi una fabbrica di fertilizzanti e un polo dell’alluminio e infine (almeno per ora) la Iron and Steel di Helwan, la più grande acciaieria del Medio Oriente, hanno iniziato a mobilitarsi contro le liquidazioni annunciate dal governo.

Gli occhi del paese in questo momento sono tutti puntati sul distretto metallurgico alla periferia sud del Cairo, dove dopo 67 anni di attività la fabbrica sembra avviata a chiudere i battenti, mandando a casa i suoi 7.300 lavoratori. Dal 17 gennaio migliaia di operai sono in presidio permanente.

Pur avendo deciso di non interrompere la produzione, domenica scorsa gli operai del primo turno sono rimasti in fabbrica, seguiti alcune ore dopo da quelli del secondo e del terzo turno.

La polizia si è subito schierata agli ingressi per impedire che dai caseggiati residenziali adiacenti altri lavoratori potessero unirsi al presidio, arrestando anche un giornalista del canale filo-governativo Cairo 24. Da allora gli operai ogni giorno si muovono in imponenti cortei intorno agli stabilimenti, diffondendo all’esterno video e racconti.

Giovedì 21 il presidente delle industrie metallurgiche statali, accompagnato dal segretario generale del sindacato filo-governativo, è arrivato nello stabilimento per proporre ai lavoratori un accordo: una generosa buonuscita per tutti, in cambio della smobilitazione.

La reazione degli operai in presidio (la maggior parte dei quali troppo giovani per andare in pensione) è stata di sdegno. Le loro rivendicazioni restano la revoca della liquidazione e nuovi investimenti per ammodernare gli impianti e tornare ad essere produttivi.

La Iron and Steel da almeno un decennio accumula perdite da centinaia di milioni di dollari, ma i lavoratori non ci stanno a pagare il prezzo di un fallimento che per molti è stato deliberatamente orchestrato.

«L’hanno distrutta, adesso la vendono», gridano i lavoratori nei loro slogan. «Noi non ce ne andiamo, Hisham vattene», è uno dei cori più diffusi, indirizzato al ministro delle aziende pubbliche Hisham Tawfiq, artefice delle politiche di dismissione dell’industria pubblica.

La Iron and Steel Company non è certamente una fabbrica come le altre in Egitto. Costruita tra il 1954 e il 1958, in pochi anni è emersa come un simbolo di progresso e modernizzazione per il paese, diventando uno degli esempi più puri del tentativo del regime di Nasser di creare una solida base industriale che potesse garantire al paese un’indipendenza reale e non solamente formale dalle potenze occidentali.

Ma il polo metallurgico è stato anche baluardo di lotte e conquiste dei lavoratori. Il primo vero conflitto operaio alla Iron and Steel scoppia nel 1971. In quegli anni la manodopera cresce vertiginosamente (raggiungendo le 21mila unità nel 1974), e si politicizza grazie all’opera dei militanti di sinistra.

In questo contesto, l’erosione dei salari e l’allungamento della giornata lavorativa spingono circa 10mila operai dell’acciaieria di Helwan a organizzare un partecipato sit-in. Alcune richieste dei lavoratori vengono accolte, ma la protesta incontra la ferma risposta delle forze di sicurezza che disperdono violentemente i lavoratori, arrestandone diverse centinaia.

Dopo la partecipazione alla cosiddetta rivolta del pane del 1977 e alle proteste per la visita del presidente israeliano Navon nel 1980, il secondo grande momento di conflittualità si registra nel 1989, quando i lavoratori danno vita a due occupazioni dello stabilimento.

La principale richiesta è lo scioglimento del comitato sindacale di fabbrica, considerato troppo vicino al regime. Gli apparati di sicurezza sono però di ben altro avviso e aprono il fuoco sui lavoratori, uccidendone uno e ferendone una dozzina.

Sulla scia di questi eventi, la sinistra ottiene uno storico risultato nelle elezioni per il rinnovo della rappresentanza sindacale nel 1991 (anche se in seguito la militanza della fabbrica si è gradualmente affievolita).

Non è un caso dunque se la notizia della dismissione della Iron and Steel ha suscitato un dibattito dirompente in Egitto. Intorno agli operai si sta mobilitando un ampio schieramento di forze politiche e sociali. In un appello ai parlamentari, i lavoratori hanno chiesto la formazione di una commissione d’inchiesta che accerti le responsabilità nel fallimento dell’azienda.

Domenica in un dibattito parlamentare che ha avuto grande risonanza pubblica, il ministro Tawfiq ha dovuto affrontare per quattro ore il fuoco di critiche di numerosi deputati che ora ne chiedono le dimissioni.

E partiti, sindacati indipendenti e organizzazioni della società civile si preparano a dare battaglia legale con ricorsi amministrativi; alcuni gruppi hanno già annunciato il lancio di una campagna popolare in difesa della Iron and Steel e delle altre industrie statali in via di dismissione.

Il regime di al-Sisi, con la spinta e il sostegno del Fondo monetario internazionale, sta tentando un’impresa che neppure Mubarak era mai riuscito a compiere, smantellando pezzo dopo pezzo l’apparato produttivo statale.

Anche qui sembra esserci lo zampino dell’esercito, con i suoi interessi economici sempre più voraci: la dismissione della Iron and Steel darebbe un grosso vantaggio alla concorrenza dell’immensa acciaieria di Suez inaugurata nel novembre 2019, in mano ai generali.

Per ora la mobilitazione si limita a contestare singole personalità e politiche governative, senza mettere in discussione l’intero regime. Il movimento operaio e sindacale egiziano, che ha giocato un ruolo decisivo nella rivolta del 25 gennaio 2011, attraversa oggi una profonda fase di crisi cominciata proprio con il colpo di stato dei militari nel 2013. Ma chissà che proprio da qui non riparta la scintilla per una nuova stagione rivoluzionaria sul Nilo.