Vieni anche tu, ha detto Maria, quando si è cominciato a parlare dei metalmeccanici a Roma. Sarà bellissimo, vedrai: un corteo lungo lungo, proprio fino in centro, con gente che viene da tutta Italia. E tuo padre ti ci manda? ho chiesto io, incredula. In piazza? A un corteo? In effetti, ci è voluto un consiglio di famiglia per darci il permesso. Doppia convocazione, tra il quinto piano e il terzo: con i due padri che a un certo punto si sono chiusi dentro a confabulare, e zia Rita che ha attaccato subito lei, appena scomparso zio Sergio. Ma cosa ti sei messa in testa, Marì? I cortei sono cose per uomini, non c’è bisogno che si interessano le donne: le donne ci vanno solo per darsi da fare, per mettersi in mostra. Tu non ti devi mettere in mostra, Marì. Metti che ti incontra un vicino, che pensa? C’è rimasta di sasso, quando è sbucato fuori zio Sergio: datosi che so’ i metalmeccanici.

CI SIAMO ABBRACCIATE, era chiaro che avevamo vinto. Perché non era mica solo fra gli studenti, che i metalmeccanici facevano più effetto del Papa: era così per tutti, anche per mio padre che faceva il tranviere, e zio Sergio che era tipografo da una vita. Guai a toccare i metalmeccanici, nel sessantanove. Dovevano vincere: se vincevano loro, vincevano tutti.
Guarda però che se fai tardi so’ cazzi tua, ha aggiunto zio Sergio, quando ha visto che festeggiavamo un po’ troppo. Se è ’na cosa seria è ’na cosa seria, no che ti metti a parlà co’ questo e co’ quello, a dà confidenza a tutti. Appena finisce, zompi sull’auto e torni a casa. E guarda che vale pure per te, Francé. Tu non gli mettere in testa stronzate, a mia figlia, tu e gli amici tuoi che state sempre a fà i saputi su tutto. Se semo capiti, Francé? D’accordo, d’accordo, ci siamo capiti.

QUELLO che non avevo capito, era che prima di andare in piazza, bisognava andare davanti alla fabbrica a fare il picchetto. Che vuoi lasciarci solo la Commissione Interna? aveva sentenziato Mammassunta. Tocca starci tutte: non deve entrà manco un bacarozzo, Marì. Ma io che faccio, mentre tu fai il picchetto? mi lamentavo io. Fai il picchetto con me, ha detto Maria, che problema c’è? L’hanno detto pure alla tua assemblea: operai-studenti-uniti-nella-lotta. Uniti un corno, pensavo io.
Io non ci sono abituata, ad andare ai cancelli alle sei di mattina: io alle sei ciò sonno, ciò freddo. Ma potevo dirlo a Maria, che si alzava alle cinque e mezza tutti i giorni? O potevo tirarmi indietro, dopo che avevamo coinvolto pure i padri? Ho messo tre sveglie, per la paura di non sentirle. E ho fatto tardi comunque: Maria scampanellava, tutta agitata, e ho dovuto rinunciare al caffè. Lo prenderò al bar, ho pensato. Ma erano le cinque di mattina, era tutto sbarrato: faceva ancora buio, a quell’ora.
È annebbiato da quell’astinenza da caffè, il mio primo ricordo di quel 28 novembre. Dalla sensazione come di nausea, di torpore greve dentro alle ossa, mischiato all’eccitazione frenetica, nel freddo frizzante dell’alba. Ha cominciato a rischiarare un poco: il cielo a quell’ora, chi l’aveva mai visto?
Pallido pallido, che cambiava colore continuamente – impallidivano pure i rumori, nelle strade vuote. Sono arrivata al picchetto come in un sogno, in trance. Ricordo una mano che mi offre un thermos con il caffè. E come ti chiami e quanti anni hai e che cosa studi, e come mai sei qui stamattina a quest’ora, ma che brava ma che bella cosa, Maria chi, scusa? Ma sì, certo che la conosco, capirai. Ci conosciamo tutti, siamo come una famiglia: ora ne fai parte anche tu, vero Francesca? Vieni a reggere lo striscione, che bello. Operai-studenti-uniti-nella-lotta…

MARIA mi ha fulminata con gli occhi, sospettosissima: guai a te se ti metti a fare la civetta con uno della Commissione Interna, ma sei matta? Mi ha afferrata per un braccio e non mi ha mollata più, per tutto il resto della giornata. Dammi la mano, ci lanciavamo una con l’altra, quando la gente attorno a noi si faceva più fitta. Tanta gente tutta insieme, chi l’aveva mai vista? Dammi la mano, Francé.
Mi sembrava che fossero tantissimi, quel giorno, a tenersi per mano. A cominciare da quelli del servizio d’ordine, ai due lati del corteo come angeli custodi – con la fascia rossa al braccio, invece delle ali sulle spalle. Certe volte faticavano, poveri angeli, con le braccia tese fino allo spasimo, per non rompere il cordone; mentre nel corteo, senza bisogno di slogarsi le braccia, era tutto un afferrarsi le mani e camminare a braccetto, scatenandosi a cantare. Cantavo anch’io, a squarciagola, stonata come sono. Una liberazione: a scuola ti guardavano sempre male, se stonavi, e in parrocchia il prete mi aveva detto che non era proprio cosa, continuare a stare nel coro, mentre lì chi mi diceva niente, pure se stonavo?
Mi pareva che stonassero quasi tutte, le ragazzine sovraeccitate della fabbrica di Maria. Stonavano e sbandavano e strillavano di tutto, dietro al loro striscione; ma alla fine anche ai lati, e davanti, e un po’ dappertutto, con il gruppo che inesorabilmente si disfaceva, si discioglieva nella massa. Una massa enorme, quasi tutti in tuta blu, a ritmare slogan in italiano e in romano, e in tutti i dialetti di tutta Italia, tutti in rima come una gara di poesia: Agnelli, Pirelli, ladri gemelli.
Bidoni di latta, come colonna sonora: percossi a ritmo, come tamburi. Ero caricata a mille, quasi più che Maria: ubriaca di sensazioni, di suoni, di voci. Noi due sole, noi due avvinghiate l’una all’altra, dentro a una cosa più grande di noi, che ti avvolgeva e ti trascinava via e faceva diventare grande pure te, forte, coraggiosa, sicura.

RESISTEREMO UN MINUTO di più del padrone, gridava Trentin dal palco di piazza del Popolo: chi se lo può scordare? Aveva poco più di quarant’anni, Bruno Trentin. Oggi ai quarantenni gli fanno fare la parte del giovane, parcheggiati nel limbo senza uno straccio di diritti. Lui dirigeva un milione di persone, che l’alfabeto dei diritti ce lo hanno insegnato a tutti quanti. Senza contare che era pure un gran bel fico, ho fatto notare a Maria quel giorno. Lei si è voltata a guardarmi, scandalizzatissima. Ma Francesca! Quello è il capo della Fiom, che ti viene in mente? Ma non lo stai ascoltando, quello che dice? Che palle, Marì, ho fatto io. Sempre a fà la seria. Mo’ basta comizi: andiamo a vedere piazza di Spagna. Appena ha finito Trentin, ha detto Maria.

SIAMO SCAPPATE VIA di corsa, da sole. Volevamo vedere Trinità dei Monti, con tutti i fiori sulla scalinata, come nelle cartoline. Non lo sapevamo, che i fiori a Trinità dei Monti li mettono solo a primavera – quando mai ci sono le azalee fiorite, a novembre? Siamo rimaste un po’ deluse. Per rifarci, siamo salite su per la scalinata, a guardare dall’alto. Abbiamo seguito la strada per Villa Borghese, e siamo finite sulla terrazza del Pincio, con la piazza sotto di noi ancora piena di canti e di bandiere rosse, e davanti a noi i tetti di Roma, le cupole. Il Cupolone: chi lo aveva mai visto, il Cupolone così? Andiamo a San Pietro, ha detto Maria.
Su come arrivarci, non avevamo la minima idea. Abbiamo cercato di orientarci a occhio, perché chiedere ci imbarazzava: vagando in mezzo a tutti questi operai, che ti spuntavano davanti a ogni svolta di strada, con le bandiere e gli striscioni arrotolati, e il panino in mano. Era tardissimo, quando finalmente abbiamo trovato la strada di casa – dopo un casino di autobus, di tram, di errori di direzione. Zio Sergio lì, sulla porta di casa, che si slacciava la fibbia.
Prova a sfiorarmi con quella cinta, ha detto Maria, e ti giuro che esco da quella porta e non mi vedi mai più.

 

SCHEDA

Cinquant’anni fa, il 28 novembre del 1969, Roma fu invasa pacificamente da centomila metalmeccanici, in lotta per il rinnovo del contratto di lavoro e per i diritti, la dignità, la libertà di tutti e di tutte. Quella giornata è raccontata da Chiara Ingrao nelle pagine del suo romanzo Dita di dama che proprio il 28 novembre esce in una nuova edizione, per la collana «I Delfini» de La Nave di Teseo, con un’importante novità: una postfazione di Maurizio Landini sul significato storico dell’autunno caldo e i suoi nessi con le sfide del presente, che si conclude con un appello a «non dimenticare la nostra storia, per trovare forza e nutrimento, ricordando i modi in cui 50 anni fa siamo stati capaci di cambiare il modo di pensare, di lavorare, di vivere». Nel libro, quel cambiamento è narrato attraverso le esperienze di un gruppo di operaie giovanissime, le cui vicende sono ispirate a quelle di una nota fabbrica romana, la Voxson. Come nel suo ultimo romanzo Migrante per sempre (Baldini+Castoldi 2019), che narra il passaggio dall’Italia degli emigranti a quella degli immigrati attraverso la storia vera di una donna lungo l’arco di 50 anni, anche in Dita di dama l’autrice mescola immaginazione e realtà, dramma e ironia, dimensione collettiva e interiorità femminile. Dal romanzo è stato tratto anche uno spettacolo teatrale che ha già avuto più di 70 repliche, in cui l’attrice-autrice Laura Pozone interpreta da sola quattordici personaggi diversi. Per saperne di più: www.chiaraingrao.it