Ultimi giorni di agosto, turno di sorveglianza notturna alla GKN di Campi Bisenzio. Fabbrica occupata.

Si comincia alle 22 e si arriva alle 06, quando entra un altro gruppo. Quattro postazioni, agli angoli del quadrilatero enorme della fabbrica. A noi tocca il “cinema”, proprio alle spalle della multisala di una zona che è una sintesi perfetta di questa post-modernità. Mega centro commerciale, multisala, magazzini dei centri della logistica, alcune fabbriche e l’immigrazione cinese tutt’intorno.

Dove arriviamo c’è una specie di capannino coperto con teli di plastica per proteggere dal vento. In realtà, si capirà presto, dal freddo. Passano subito a prendere le prenotazioni per gli spaghetti alle due di notte. Arriveranno anche latte e brioche verso le quattro di mattina.
Inutile dire che l’atmosfera è magnifica.

SIAMO FRA COMPAGNI. Si spezza il pane insieme, questa notte spaghetti e brioche. Sono momenti di una specie di amore politico, ci si sente straordinariamente vicini a degli sconosciuti. Fratelli.

Verso mezzanotte arrivano cinque giovani operai. Portano un pallone, un cane e anche delle coperte. Il cane si occupa del pallone.

Ci dicono che abbiamo beccato proprio la notte che segna la fine dell’estate. Hanno l’aria di scusarsi, quasi fosse colpa loro – oppure è il loro modo un po’ timido di ringraziarci per il gesto di solidarietà. Chiaro che ci considerano un po’ vecchietti dunque fragili. E non è che sbaglino di molto.

Due operai ci fanno visitare l’interno della fabbrica. Monitor dappertutto, macchine e robot dalle grandi braccia, alcuni lucidissimi. Ci spiegano tutto, veramente tutto, come fosse la fabbrica una loro creatura, e noi facciamo finta di capire quel linguaggio tecnico. Ci spiegano che è come un organismo vivente di cui bisogna avere cura.

IL PIÙ GIOVANE DEI DUE ci fa vedere i pezzi che giacciono nei contenitori, già venduti e abbandonati. Prende un lungo cilindro di ferro, dice che è un semiasse della Ferrari. Guardate che meraviglia. Però adesso devo smettere, se no mi viene da piangere. Qui c’è ancora una sorta di sincero orgoglio del lavoro, del lavoro fatto bene. Quei pezzi così puliti sono figli di una meccanica che – per quanta automazione ci sia – ha sempre assoluto bisogno dell’intervento umano.
Si esce ed è l’ora della spaghettata notturna. Aglio olio e peperoncino in quantità industriale. Due piatti a testa, poi parte la macchinina elettrica per le postazioni.
Quando torno al capannino i giovani operai si stanno raccontando.

HANNO FRA I TRENTA E i quaranta anni. Sono una squadra. Raccontano del loro arrivo in fabbrica, di come i più vecchi li massacravano di scherzi. Vai a chiedere la chiave a vela. Portami il conduttore a martello. E via così. Stravaganti strumentazioni dell’immaginario.

Ognuno racconta di essere stato vittima, e poi complice a danno dei nuovi. Come in una forma di nonnismo militare. Peraltro la dose di maschilismo presente nel linguaggio è piuttosto elevata. Appartiene, si direbbe, al codice comunicativo standard del gruppo di maschi: una funzione linguistica, fatica. Inevitabile, forse: non ci sono donne in fabbrica, solo alcune fra gli impiegati.

Hanno avuto tutti un percorso di scuola disastroso. Istituti professionali ripetuti per anni e poi abbandonati, formazione professionale oppure niente.
Ma ci raccontano anche che il lavoro gli piaceva. Stavano insieme, si prendevano delle pause, chiacchieravano e scherzavano. Andavano a cena insieme. E anche i turni di notte non erano un problema: lasciavano un sacco di tempo libero.

Si sente che si vogliono bene, anche se si prendono continuamente in giro. Fra maschi l’affetto sembra avere bisogno di oggetti intermedi, parole che parlano d’altro, schermi protettivi dal linguaggio diretto dei sentimenti.

MA PARLANO DEL LORO lavoro al passato. Stanno partecipando alla lotta, non perdono un appuntamento, però pensano che in questa fabbrica che dorme lì accanto non torneranno più. Non dorme – è in coma, per quanto indotto. Irreversibile.
Uno, il più alternativo – barba alla Dragowski e orecchino – dice che si dovrebbe farci un parco giochi, con scale, scivoli e i robot che fanno salire e scendere i bambini come in una giostra.

Dicono, Ci siamo certo, partecipiamo a tutto, abbiamo fatto trenta facciamo trentuno – ma non ci credono nel sole dell’avvenire, nella vittoria finale. Sono l’emblema del disincanto, della disillusione. Certo non rappresenteranno tutti i 422 licenziati ma rappresentano qualcosa di significativo.
Quello del parco giochi dice che non crede più alle istituzioni. Si capisce che intende i partiti, i governi, i parlamenti – tutta la “politica” forse. Ha votato una volta «per il movimento» (credo i 5 Stelle) ma adesso non vota più.

Noi siamo vissuti un po’ come «i politici», quelli che ci credono e sono venuti per portare solidarietà alla lotta, e allora quasi ce lo domandano: Vi abbiamo delusi?, vi aspettavate i militanti che non mollano e invece avete trovato noi… Sembra quasi si sentano in colpa per questa immagine così poco eroica della classe.

E TUTTAVIA.
Quando ci parlano dei giovani che vedono oggi, viene fuori che gli dispiace un casino che siano immersi a tempo pieno nei cellulari e nei social come in una vacanza infinita dalla vita vera. Dicono che hanno studiato ma accettano lavori infami senza ribellarsi. Che invece non bisogna rassegnarsi al mondo così com’è. Sembra non tollerino il disincanto, la disillusione degli altri. Come mantenessero una alterità che non deve andare perduta. A cui non si deve rinunciare.
Forse non credono che potranno cambiare il mondo ma ci tengano a che il mondo non cambi loro.

Alla fine, alle sei di mattina, quando torno a casa, non mi riesce di essere triste.
Continuo a pensare che in questa battaglia su qualcosa si può vincere. Questi operai, così poco eroici, hanno mostrato una creatività straordinaria, non si sono mai fatti trovare là dove l’avversario, invisibile nella sua onnipotenza, li voleva. Non sono mai stati patetici.
Però non è solo questo.

Vado a fare colazione con felpa, k-way e sciarpa, ma penso che è stata una notte calda. Forse su un terreno diverso dalla «politica» come la chiamano loro, ma che in qualche modo deve avere a che fare con la politica come la pensiamo noi.
Per quanto emblemi del disincanto, erano davvero un collettivo, una specie di comunità di lavoro e di destino. Una classe non solo in sé ma anche per sé. Un tessuto di affettuosità operaia, di disponibilità assoluta all’aiuto reciproco.

Una rete di esperienze comuni, vissute intensamente e non pacificate con il mondo. Rispetto al capitalismo dominante e alla sua cultura, una specie di alternativa esistenziale. Forse non lontana dalle ragazze e dai ragazzi che hanno riempito le strade per il Friday For Future o il Black Lives Matter. Una questione etica e antropologica, di relazioni umane. Quindi politica.

E forse si può davvero ripartire da questo essere altro in un luogo comune.
In ogni caso, in questa alba di fine estate, per oggi mi basta.