È stato appena confermato sottovoce, ma potrebbe finire come altre magniloquenti iniziative sbandierate dal governo uscente, per tacere di quelli usciti ancora prima: in un buco nell’acqua. Parliamo del Festival, manifestazione dal nome ancora antonomastico (e quindi immodesto) che Boris Johnson ha confermato nell’agenda governativa prossima futura in uno degli ultimi atti da premier, qualora riuscisse a farsi rieleggere il prossimo 12 dicembre. E che già i detrattori hanno ribattezzato «Brexit Festival».

SI TRATTA DI UN CONTENITORE celebrativo del meglio della cultura, dell’arte, dello sport, del design e della tecnologia britannici da tenersi nel 2022. Una data che, oltre a dare per scontato che lo stracotto Brexit sarà allora pronto, coincide con altri illustri anniversari: il giubileo di platino di Elisabetta II (presumendo che Dio l’abbia preservata), il centenario della Bbc e i settantacinque anni dal primo Festival di Edinburgo. E che prende le mosse dalla vittoriana Esposizione universale del 1851 e dal Festival of Britain del 1951.

L’IDEA ERA VENUTA all’entourage di Theresa May, che l’aveva annunciata alla vigilia del congresso dei Conservatori nel 2018: nei termini della politica britannica (e non solo) attuale una vita fa, quando ancora si pensava che la legislatura avrebbe tenuto fino alla data di scioglimento ufficiale, anch’essa nel 2022. Nel frattempo la porta girevole di Downing Street ha visto entrare e uscire Johnson che, da amante qual è di vanity projects costosi quando non socialmente nefasti – si vedano le Olimpiadi del 2012, o peggio, il famigerato ponte-giardino sul Tamigi – ha entusiasticamente confermato il budget di centoventi milioni di sterline per l’operazione e nominato un direttore artistico/tecnico in Dean Creamer, già responsabile dei Commonwealth Games che si terranno anch’essi nel 2022 a Birmingham.

INUTILE DIRLO, l’iniziativa ha scatenato polemiche. Il Guardian ha riportato il giudizio tutt’altro che entusiasta di un alto funzionario del sistema museale nazionale secondo cui «Molti musei sono alquanto cauti riguardo l’iniziativa. C’è anche la sensazione che se diventasse un festival su Brexit la questione diventi etica. Metà dei visitatori gli sarebbe del tutto ostile». Sensazione nient’affatto peregrina, giacché secondo gli ultimi sondaggi, la spaccatura civile tra il 52% a favore dell’uscita e il 48% per la permanenza che tre anni fa consegnava il paese a questa vischiosa impasse perdura più o meno nelle stesse proporzioni.

Senza naturalmente contare il notevole dispendio di denaro pubblico per il Paese, a scopo di grandeur tardo-imperiale, proprio dagli stessi che gli hanno inflitto una decennale austerità ormai degenerata in vera e propria prostrazione sociale.