Non è stata la malattia neurodegenerativa diagnosticata una decina d’anni fa a portarselo via, ma un cancro con cui conviveva da tempo. Così ad appena 48 anni Ezio Bosso, il pianista, compositore e direttore d’orchestra piemontese, è morto la scorsa notte. «La musica ci cambia la vita e ci salva. La bacchetta mi aiuta a mascherare il dolore e non è una cosa da poco», confessava dopo una diretta tv su Rai 1. Nato a Torino nel 1971, cresciuto musicalmente il decennio successivo, edonistico e lontano dalla città operaia di un tempo, lui peraltro figlio di operaio, sedotto dalle band indie dell’epoca, ma già musicista totale se si intende la sua carriera come svolgimento in divenire di un autentico amore filosofico per la musica. E non solo come bellezza.

IDEE QUESTE che potevano appartenere a un qualsiasi artista. Senonché la malattia è stata uno spartiacque per Bosso, trasformando un bravo esecutore d’estrazione classica, avviato verso una onesta routine con punte d’eccellenza, raggiunte grazie ad interessantissimi incontri come quello con un gigante del contrabbasso come Ludwig Streicher o come il sodalizio, anche amicale, con Mario Brunello o i servigi offerti al cinema di Salvatores, in un fenomeno mediatico. Il salto di notorietà è stata l’apparizione nel 2016 sul palco dell’Ariston nel più nazional popolare dei festival, Sanremo griffato Carlo Conti dove sedusse la platea – e 14 milioni di telespettatori – con una struggente versione di Following a bird. A salire sul palco fu un uomo che gettò all’aria la corazza di musicista e si mostrò «naked», nudo, per quello che era e in tutta la sua fragilità, teso nello sforzo fisico che sottintendeva qualsiasi sua azione, aumentata ogni secondo in più dal ritorno nelle case della sua immagine televisiva. Cosa restava però delle sue composizioni? Quel brano era tratto dal suo primo album solista The 12th Room, musicalmente ibrido – e questa sarà la sua cifra stilistica futura, oscillante agli inizi tra un minimalismo di riporto e tradizione colta – ma orchestrato solo l’anno prima da un’abile azione di marketing che l’aveva distratto dalle riviste specializzate e portato all’attenzione dei media generalisti.

IL PASSAGGIO da un’etichetta indipendente alla Sony fu la logica di un successo crescente, accompagnato talvolta da polemiche e da chi storceva il naso davanti alla sua musica. Basta vedere l’impatto emotivo della sua morte: dodici sue produzioni tra cd e vinili risalite nella top 20 di Amazon, per avere la misura della sua popolarità. Di certo, la mimica, il viso scavato, il ciuffo picassiano, i berretti modaioli – retaggio forse dei trascorsi nelle band indie torinesi degli anni 80 – , il passo sempre più lento e sul punto di cadere e le mani mai dome, le ultime a cedere, precludendogli il piacere di suonare il piano e lasciandogli solo la direzione d’orchestra, erano estremamente iconici e riconoscibilissimi per un pubblico, sempre più frammentato e bisognoso di nuovi miti.

ALIMENTATI peraltro da rituali che gli consentirono di viaggiare in molti contesti, accumulando commissioni, incarichi e premi. Con il cinema aveva anche una certa affinità praticandolo in prima persona attraverso alcuni corti e rapsodiche escursioni nel lungometraggio. Anche se – va detto – una certa bulimia compositiva abbia connotato e saturato questi anni di grande celebrità. La direzione d’orchestra poi gli aveva aperto un mondo nuovo in cui far brillare la musica e legarla ai grandi giganti del passato – mostrando anche intenti divulgativi come nella serata evento Che storia è la musica dove nel giugno 2019 portava la classica al pubblico di prima serata su Rai1. Restando coerentemente legato a quel suo desiderio di far emergere, dopotutto e che forse gli resterà appiccicato post-mortem, un discorso sulla musica come veicolo di novità.