In attesa che sorga la luna nuova «magra come un orfano nutrito malvolentieri da una matrigna crudele», Ezeulu, sommo sacerdote dal potere illimitato sul corso delle stagioni, dei raccolti e sugli abitanti di Ulmuaro mangia igname senza olio di palma nella sua capanna di terra rossa e non lo condivide con nessuno.
Così Chinua Achebe ci immerge nella realtà rurale della Nigeria degli anni venti del ’900 in La freccia di Dio (La Nave di Teseo, pp. 344, euro 19,50), romanzo conclusivo della trilogia che gli ha tributato l’appellativo di «padre della letteratura africana moderna» (composta da Things Fall Apart, 1958, No Longer at Ease, 1960 e The Arrow of God, 1964, apparsi per la prima volta in Italia nel 1977 per Jaca Book). La freccia di Dio, ora nella nuova traduzione di Alberto Pezzotta per la casa editrice che ha già ripubblicato i primi due, Le cose crollano (2016) e Non più tranquilli (2017), segna una parabola discendente, distruttiva della vita e delle tradizioni rurali delle comunità Igbo in una Nigeria colonizzata dall’Impero britannico.

NEL LIBRO Le cose crollano la caduta di Okwonko, guerriero ambizioso e rispettato, segnava la caduta della civilizzazione Igbo in genere (divenuto pietra miliare delle letterature africane postcoloniali, sarà utile qui ricordare che il libro ebbe un successo straordinario: fu classificato fra i più grandi romanzi del ’900, tradotto in cinquanta lingue, record assoluto per un’opera africana, vendendo oltre dieci milioni di copie in tutto il mondo).
In Non più tranquilli era la democrazia pura e idealista a esser crollata, facendo spazio alla corruzione. In La freccia di Dio si ha infine il passaggio dalla religione tradizionale, con le sue credenze e divinità, al cristianesimo. Ezeulu, sciamano e sacerdote, è un altro eroe tragico, forte della superiorità conferitagli per volere divino, ma lasciato solo dalla sua gente e dalla sua famiglia. Convinto di essere «una freccia nell’arco del suo dio», Ezeulu si trova a fronteggiare un cambiamento inarrestabile: l’arrivo dell’uomo bianco e delle scuole missionarie, portando a compimento la denuncia di Achebe dell’occidentalizzazione del paese e della catastrofe culturale, eredità del colonialismo (denuncia che l’autore proseguirà poi nelle successive opere contro i regimi corrotti succedutisi in Nigeria dopo l’indipendenza).

Per oltre trecento pagine, la narrazione procede apparentemente placida ma inarrestabile nel suo declino, alternandosi tra due mondi: in contrasto a questa ambientazione rurale, Achebe descrive con altrettanta acutezza d’osservazione la stazione coloniale britannica, sotto la guida del Capitano Winterbottom, che ha interrotto le guerre tribali e riportato la pace spezzando le armi dei nativi (svilendone così la mascolinità e rendendoli come bambini) e che si interroga ora sulle sorti di queste popolazioni.
Con gli altri funzionari amministrati, il capitano condivide la convinzione del valore della missione britannica in Africa e il progetto di modernizzare e civilizzare il continente, costruendo infrastrutture e opere pubbliche, ma è contrario all’insana idea che sta serpeggiando nei quartieri generali di «governo indiretto» basato sulle istituzioni locali, riconoscendo soltanto una primitiva crudeltà profondamente radicata nella psicologia dei nativi.

IL ROMANZO è infarcito di dialoghi, da cui emergono lingue diverse (a cui Pezzotta presta grande attenzione nel suo delicato compito di traduzione) che rendono vivi e pulsanti questi due mondi. Mentre i colonizzatori usano un inglese impeccabile e formale, a volte sottilmente parodistico, le parti di ambientazione rurale sono ricche di idiomi Igbo, non tradotti ma spiegati solo dal contesto (il volume è corredato di un glossario finale), che consentono un’immersione nella vita quotidiana, descrivendo o alludendo ai costumi e alle tradizioni Igbo con metafore e locuzioni, talvolta oscure formule cerimoniali e proverbi non sempre del tutto intelligibili e pertinenti.
Il lettore occidentale potrà subire un impatto straniante, superato il quale però, verrà trasportato negli obi di terra rossa e nei villaggi tradizionali, parteciperà a giornate di mercato e matrimoni, alla Festa del Nuovo Igname e delle Foglie di Zucca e alle cerimonie di purificazione prima della semina, in atmosfere che restituiscono a un mondo ormai perduto già nel momento stesso in cui l’autore lo stava descrivendo, la sua bellezza primigenia, con una carica inscindibile di nostalgia e fierezza.