Qual è la paura a un mese dall’ora zero? Anche se il procurato allarme è roba da codice penale, non si arrestano le notizie che circolano attorno all’Expo. Figuriamoci le veline. Ce ne sono un paio velenose. Una, clamorosa, verrà dimenticata. L’altra, invece, come una profezia che si auto avvera, ci accompagnerà fino al primo maggio. E anche oltre.

 

Ma andiamo con ordine. Se anche il Corriere della Sera spara ad alzo zero contro i vertici di Expo, deve esserci qualcosa che non funziona. E se si rischia di arrivare al giorno dell’inaugurazione con il Padiglione Italia ancora da ultimare, il contrattempo potrebbe trasformarsi in una figuraccia mondiale (sarà un caso, ma il presidente della Repubblica avrà altro da fare il giorno del taglio del nastro). Sotto il titolo “Un ritardo che non è scusabile”, il giornale di via Solferino, dopo aver scritto che Raffaele Cantone ha riscontrato “i problemi maggiori” proprio nei “due progetti che più di ogni altro dovrebbero rappresentare il nostro paese” (il Padiglione Italia e l’Albero della Vita), ieri ha concluso dicendo “non vorremmo che l’Expo passasse alla storia quale prova dell’italica incapacità a rispettare gli impegni”.

 

Scandalo? Per niente. Del “disfattismo” dell’editorialista non resterà traccia, perché la notizia è già stata sepolta da una tonnellata di curiosità propagandistiche impreziosite da numeri, amenità e manifestazioni di entusiasmo che non lasciano spazio a obiezioni. Tutti incrociano le dita, ma basta una dichiarazione del commissario di Expo Giuseppe Sala per rimettere le cose a posto: “Palazzo Italia è in ritardo ma riusciremo a finirlo, la verità la scopriremo il primo maggio”. Nel frattempo ci si rallegra perché quel giorno i cancelli dell’Expo apriranno al mattino e il primo ad entrare sarà “il signor nessuno”. Democratici.

 

Poi ci sono notizie, le veline dei servizi, con cui lo sparpagliato “movimento” che si sta mobilitando sarà costretto a fare i conti per non finire imbrigliato in una logica auto distruttiva. Sono i report catastrofisti che d’ora in poi riempiranno le pagine dei giornali (ieri La Stampa).

 

Il primo maggio, questa la sintesi, Milano sarà invasa da un’orda di barbari pronti a tutto, compreso “il blocco nero più temuto dalle forze di polizia di tutta Europa”. Un’onda d’urto in grado di produrre danneggiamenti “dieci volte superiori a quelli del G8 di Genova”. Dunque ci sarà un gran da fare per le polizie del governo Renzi e sembra che a qualcuno non dispiaccia affatto una situazione fuori controllo. Il parallelo con Genova, se la memoria non inganna, dovrebbe invitare i commentatori a rivolgersi alle polizie piuttosto che ai manifestanti: per chiedere più professionalità, meno pistole fuori dai finestrini, meno torture, meno infiltrati vestiti da blocco nero, per pretendere una gestione della piazza almeno non da “macelleria messicana”.

 

Lasciamo perdere il 2001. La situazione è diversa e il “movimento” che cercherà di ritrovasi per la mayday/no expo day non è paragonabile all’esperienza di quattordici anni fa.

 

Questo non vuol dire non prendere atto che gli allarmismi agitati da qualcuno servono proprio a creare quel clima di paura che aiuta a preparare il peggio. Inutile nasconderlo, un problema di gestione della piazza e di prospettiva politica esiste. Di questo stanno discutendo le diverse anime del “movimento” milanese, sapendo che sarà difficile in un solo mese superare una fase di debolezza senza porsi almeno un obiettivo per sottrarsi con intelligenza a un gioco pericoloso imposto da altri: la rabbia esiste e la piazza non può che essere di tutti coloro che ci vogliono stare. Ci sono problemi di natura “tecnica” che riguardano la composizione del corteo (che si vuole più aperto possibile) e il percorso da concordare con la questura. In più, si sta ragionando su come gestire la complicata giornata del 29 aprile – quando i fascisti sfileranno a passo d’oca per ricordare Sergio Ramelli ucciso 40 anni fa – e su come garantire la riuscita del corteo studentesco previsto per il giorno successivo.

 

Ma la discussione più interessante è quella sul futuro. La fiera dura sei mesi e c’è ancora tempo per porsi un obiettivo che vada al di là della pur dura e legittima opposizione di piazza. L’Expo si fa. Sarà sicuramente più popolare e meno “antipatico” della Bce o del Fmi. Il dopo però è tutto da scrivere.

 

Chiedersi come proseguire per portare a casa qualcosa, uno spazio, un padiglione, una “fettina di torta”, forse potrebbe servire a non farsi mettere fuori gioco ancora prima di cominciare.