Confesso che non sono finora riuscito a appassionarmi ai temi e ai problemi che espone l’Expo milanese. Provo fastidio per la retorica celebrativa dell’Italia «che ce la fa» – anche se non sottovaluto l’importanza di «farcela» in una situazione di crisi così difficile – e poi forse la quantità di questioni che si è accatastata sulla vicenda (la corruzione, la speculazione, la fame nel mondo e le varie forme di buona e cattiva volontà in campo per affrontarla, il successo o meno di Renzi, ma anche quello di Pisapia, i biglietti scontati per chi si iscrive al Pd!… ecc.) ha determinato in me una sorta di indolente rimozione mentale.

Che poi esistesse un consistente movimento no-Expo sinceramente non l’avevo chiaramente percepito.

L’azione di chi in tuta nera e a volto coperto ha spaccato vetrine e incendiato automobili il primo maggio scorso, con l’enfasi mediatica e politica a senso unico che ha suscitato, ha certamente contribuito a focalizzare l’attenzione sul dilemma: Expo o non Expo?

Direi che in prima battuta l’azione dei cosiddetti black bloc ha portato acqua al mulino dei sostenitori dell’Expo. Come non simpatizzare con il sindaco di Milano e i suoi concittadini che manifestano il giorno dopo e si mettono a pulire le strade, riaggiustare le vetrine, ribadendo così il valore positivo dell’esposizione?

Ma soprattutto la violenza – a mio parere davvero stupida (anche nel senso di un desolante narcisismo immagino soprattutto maschile) – delle «tute nere» ha contribuito alla quasi totale rimozione delle ragioni di chi voleva invece esporre una critica radicale ma ragionata ai contenuti della grande fiera milanese.

La questione riguarda il torto e la ragione, e anche – e forse soprattutto – il come si comunicano le proprie ragioni quando si vuole farne oggetto di politica. Una faccenda che riguarda da vicino chi fa informazione, oltre a chi è impegnato nella politica.

E io qui me la cavo quasi solamente rimandando alla lettura e – mi auguro – alla discussione di tre, anzi quattro, testi: il primo è l’articolo di Marco Bascetta e Sandro Mezzadra uscito sul manifesto il 4 maggio scorso («La prova di forza che mima la rivolta che non c’è»), il secondo è la lettera aperta che Luisa Muraro ha indirizzato a Bascetta (si trova sul sito della Libreria delle donne di Milano), il terzo è il lungo racconto della giornata e della manifestazione milanese che Lucia Bertell indirizza a Muraro (sempre sul sito della Libreria), il quarto è un vecchio articolo di Stefano Ciccone e Michele Citoni scritto subito dopo il G8 di Genova (sul sito di «maschile plurale», La nonviolenza e le giornate di Genova).

Io penso che le osservazioni di Muraro alla pur giusta critica di Bascetta e Mezzadra all’azione dei black bloc vadano meditate: non basta criticare, bisogna saper vedere e raccontare, se c’è, che cos’altro si muove e fa politica, una politica diversa.

Come quella che racconta per esempio Lucia Bertell. Nel suo racconto però, a mio avviso, si sorvola troppo sul fatto che ormai dovrebbe essere largamente prevista la presenza di pratiche politiche violente nelle manifestazioni come quella indetta a Milano. Se non si condividono, è necessario inventare le forme alternative capaci di isolarle e renderle quantomeno meno politicamente nocive (il che non vuol dire armare servizi d’ordine). Del resto appunto dal 2001 di Genova il problema è aperto.

Ma il punto più decisivo è che per vedere altro bisogna porsi dal punto di vista che ce lo permette. E questo comporta una discussione su ciò che desideriamo e che intendiamo per politica, che mi sembra ancora largamente incompiuta.