L’acronimo è ’Led’, sono quelle lucine colorate che indicano che un aggeggio elettronico è acceso o comunque dà un segnale di vita. Ieri mattina i fuoriusciti di Sel (Migliore, Di Salvo, Fava,Piazzoni, Zan, Lavagno, Pilozzi, Lacquaniti, Nardi) si sono schierati nella sala stampa di Montecitorio per lanciare Libertà e diritti, la loro nuova associazione. Un contenitore per adesioni individuali o collettive, non alternativo a tessere di partito, «aperto e inclusivo». In pratica è la casa – almeno quella provvisoria – di chi lascia Sel.

Ma «non è un partito e mai lo sarà» e inizierà da subito il dialogo con il governo di Matteo Renzi «abbassando la bandiera del pregiudizio e alzando quella del merito», spiega Titti Di Salvo, portavoce del gruppo. Punto primo, gli esodati. Punto secondo, la raccolta di firme per il referendum contro il fiscal compact – che però è «ad alto rischio di inammissibilità», ha scritto sul manifesto il costituzionalista Gaetano Azzariti.

Fin qui saremmo ancora alla coincidenza quasi millimetrica con gli ex compagni. E invece no, «con Sel c’è una divergenza strategica», spiega Di Salvo, e consiste nell’idea «di campo aperto per costruire una forza di centrosinistra». E siccome le elezioni politiche sono lontane, di fatto andranno nelle liste del Pd già dalle regionali 2015? «Non corriamo. I nostri potrebbero costruire liste civiche», risponde Migliore.

I «nostri»: cioè, fin qui, un’avanguardia di interessati arrivati a Roma lunedì nella sala Margana, alle spalle di Botteghe Oscure, da 13 regioni (Lombardia, Piemonte, Puglia, Sicilia, Calabria le più rappresentate, spiegano). «Un inizio incoraggiante: c’erano sindaci, vicesindaci, consiglieri comunali, il che dimostra che il nostro non è un movimento di palazzo, come qualcuno continua a sostenere». Si peseranno alla prima assemblea nazionale, in autunno, ma entro luglio organizzano un seminario per partire con il tesseramento.
Intanto, ancora per marcare la differenze da Sel, Di Salvo manda gli auguri al neopresidente del parlamento europeo Martin Schulz «che avremmo voluto presidente della Commissione» (in campagna elettorale obtorto collo hanno sostenuto il greco Tsipras), «il nostro campo è nettamente quello dei socialisti europei». Presto nascerà la componente nel gruppo misto di Montecitorio. Ai nove ’leddisti’ (altri tre fuoriusciti sono entrati direttamente nel Pd), a giorni si aggiungerà «un’adesione tecnica» per arrivare alla soglia necessaria di dieci. «Porte aperte» e «no alla divisione in rivoli», ma per ora i socialisti di Nencini vengono tenuti a distanza, con buona pace della comune insegna del Pse. La speranza – ma qui non si dice – è che presto arrivino altri deputati di Sel. Ad ascoltarli ieri c’era il pugliese Toni Matarrelli, del gruppo vendoliano; e il trentino Florian Kronbichler è dato ancora fra gli indecisi.
«Non chiediamo a nessuno di lasciare il proprio partito ma lanciamo un appello a fare un percorso insieme», dice Claudio Fava, che polemizza con Vendola senza nominarlo: «Nessuno di noi ha ricevuto pressioni dall’esterno, sostenerlo non è generoso». («Dal Pd pressioni indecenti», aveva detto il presidente di Sel). Ancora Fava: «Non abbiamo intenzione di essere una corrente in più nel Pd ma vogliamo smuovere l’immagine del centrosinistra di oggi, vogliamo proporre a questo grande partito la questione se ci sia lo spazio per creare una forza di centrosinistra, un campo che superi la somma algebrica dei movimenti e dei partiti».

«Una forza», dunque, non due partiti. Sempreché il centrosinistra esista ancora nel futuro del Pd. Tutto dipenderà dalla legge elettorale. Migliore, già ambasciatore di Sel sulle riforme, continua a chiedere la modifica delle soglie: «Lo sbarramento al 4 per cento è antiestetico, quello all’8 per i non coalizzati è una follia. Se proprio ci deve essere, lo sbarramento sia uguale per tutti, dentro e fuori dalla coalizione. No a pasticci tipo clausole di salvataggio per il miglior perdente». Per Sel, al momento, il 4 è una soglia a dir poco difficile. E la ’clausola’, nelle intenzioni di alcuni dem, era una ciambella di salvataggio. Senza quella, nei fatti, l’Italicum disegna un Pd che corre da solo.