Nessun incontro oggi. In superficie la trattativa sulla sorte dell’Ilva tra il premier e i vertici di ArcelorMittal è immobile. Nulla in agenda tranne, forse, la riunione tra Giuseppe Conte e i parlamentari pugliesi dell’M5S, a modo suo decisiva quasi quanto quella tra il governo italiano e la più grande multinazionale dell’acciaio. Il che, nella sua bizzarria, rende l’idea di quale sia l’aspetto surreale di una vicenda drammatica.

MA SE LA SUPERFICIE è piatta, in profondità le acque invece si muovono. L’offerta sulla quale sta lavorando il governo è pronta e il ministro dell’Economia Gualtieri la indica intervenendo a un convegno organizzato dall’Huffpost. «E’ necessario che si richiami Mittal al rispetto degli impegni. Lo Stato italiano deve dare tutte le necessarie garanzie giuridiche, amministrative e di concorso a sostegno della capacità di affrontare un momento congiunturale difficile. Ma non si può accettare che si vada a quattro milioni di tonnellate». La traduzione è semplice. L’Italia è pronta a varare lo scudo, ad applicare uno sconto sull’affitto degli stabilimenti, circa 180 milioni in meno, e anche ad accettare tagli della forza lavoro, ma non nella misura richiesta dall’azienda. Perché di questo si parla quando si nomina la diminuzione della produzione dai previsti 6 milioni di tonnellate a 4.

Il ministro blocca sul nascere le fantasie di nazionalizzazione, proposta a cui ha dato ieri voce il ministro LeU Roberto Speranza. Lo strumento, dice il ministro, «non va escluso» ma stando attenti a «non alimentare pericolose illusioni». Diverso il discorso per quanto riguarda una possibile partecipazione della Cassa depositi e prestiti, invocata ieri sia dal segretario della Cgil Maurizio Landini che dalla capofila dei ribelli pentastellati, l’ex ministra Barbara Lezzi. L’entrata in campo della Cdp a fianco di Mittal o di chiunque prenderà in mano l’acciaieria è però l’extrema ratio. La maggioranza delle azioni resterebbe in mano a Mittal o a chi per lei. L’esborso per lo Stato sarebbe grosso. Il rischio di ripiombare nell’antica formula del capitalismo assistito italiano, «socializzazione delle perdite, privatizzazione dei profitti», ancora più grosso.

MA A MALE ESTREMO anche l’estremo rimedio sarà messo in campo. Perché il solo punto davvero irrinunciabile è tenere l’ex Ilva aperta a ogni costo. E la missione va realizzata presto, senza giochi al rinvio. Su questo i messaggi, discreti ma fermi, del Colle sono stati inequivocabili. L’Italia e il suo governo si giocano per intero la loro credibilità sull’Ilva e, in misura minore ma non indifferente, su Alitalia. Le due vicende vanno chiuse prestissimo.
Ufficialmente Mittal non ha inviato segnali. In realtà ha fatto sapere di essere disponibile a sedersi al tavolo delle trattative e questo spiega il relativo ottimismo che, nonostante lo stallo apparente, si avverte. Anche perché, se su un piatto della bilancia ci sono le offerte del governo, sull’altro c’è la minaccia legale. I commissari stanno per presentare il loro ricorso contro la decisione dei franco-indiani: «Non ci sono le condizioni per il recesso». Se sconfitta in aula, Mittal dovrebbe pagare una penale altissima.

PERÒ QUESTA ARCHITETTURA si fonda su un presupposto tutto da verificare: la disponibilità dei 5S ad accettare lo scudo penale e il rinvio della messa in sicurezza dell’altoforno 2. Il nodo, nella maggioranza, è sempre quello. Matteo Renzi ha fatto ieri la sua mossa. L’emendamento annunciato è arrivato. Anzi ne sono piombati due sul decreto fiscale: uno per evitare il blocco dell’altoforno 2, il 13 dicembre, l’altro per ripristinare la copertura penale a favore della multinazionale. Le opposizioni lo voteranno. Il Pd, che ha congelato il proprio emendamento in segno di fiducia nell’impegno di Conte a riattivare lo scudo, no.

Ma il voto in commissione è comunque a rischio: i numeri registrano la parità, 21 a 21. Basterebbe una defezione per creare un incidente formato Godzilla. Sempre che il presidente della Camera Fico non risolva la faccenda con la sciabola dichiarando gli emendamenti non ammissibili. Oggi si esprimerà la presidenza di commissione. Poi, se ci sarà ricorso, la parola passerà domani a Fico.

Ma Renzi è il problema minore. L’enigma è la decisione dell’M5S ma ancora di più la disponibilità dei 18 senatori ribelli di Lezzi a votare lo scudo, se mai arriverà, per disciplina di movimento. Il Pd è relativamente ottimista: «Non faranno cadere il governo per chiudere l’Ilva». Ma tranquillo, al momento, non è proprio nessuno.