«Non permetteremo ad ArcelorMittal di andarsene indisturbata». Parola di Luigi Di Maio e la cosa non è tanto rassicurante. Non perché il comportamento della multinazionale non sia stato effettivamente più che censurabile o perché il governo abbia torto nel meditare di far causa se la trattativa con i franco-indiani non si riaprirà. Solo perché la sparata demagogica rivela il vuoto di proposte e l’assenza di prospettive in cui fluttua la maggioranza.

IL GOVERNO HA DECISO di istituire un «gabinetto di crisi» in servizio permanente attivo. In realtà la sola strada che sta provando a battere è quella della trattativa con l’azienda. Si scrive «trattativa», si legge «numero di esuberi». Il viceministro dell’Economia targato Pd Antonio Misiani lo dice chiaramente: «Bisogna tenere i nervi saldi e costringere Mittal a trattare: cinquemila esuberi sono assolutamente inaccettabili». La metà invece, in forma di cassa integrazione e non di licenziamenti e con qualche assicurazione in più, probabilmente lo sarebbe. Che la via sia solo quella, del resto, lo avrebbe detto anche Conte, nell’incontro di venerdì presso la prefettura di Taranto.

La stessa via indica Confindustria. Anzi, scende in campo a spada tratta. «Se pretendiamo che nonostante le crisi congiunturali le imprese debbano mantenere i livelli di occupazione facciamo un errore madornale», dichiara il presidente Vincenzo Boccia. La replica del segretario della Cgil Maurizio Landini è immediata e furente: «Sono parole senza senso. C’è un accordo da far rispettare che prevede degli impegni». Anche il vicesegretario del Pd Andrea Orlando critica Boccia per il sostegno aperto a Mittal. Però, con un po’ di ipocrisia in più, proprio quella è la strada che il Pd mira a imboccare. Paolo Gentiloni, futuro commissario europeo all’Economia, non si sbilancia sugli esuberi, ma sullo scudo penale sì: «Il patto va rispettato da tutte le parti».
Solo che la trattativa è un terreno minato. Lo scontro con i sindacati sarebbe inevitabile ma soprattutto verrebbe al pettine il nodo che continua a essere eluso proprio grazie alla richiesta inaccettabile di Mittal. L’M5S non è disposto ad accettare la precondizione della multinazionale, lo scudo penale, e anche se Di Maio si piegasse molti parlamentari non lo seguirebbero. Certo, arriverebbe in soccorso il voto delle opposizioni ma per il governo sarebbe la fine.

IN MANCANZA di una nuova cordata, la sola alternativa sarebbe la nazionalizzazione. E’ la carta su cui puntano i 5S, dato e non concesso che abbia senso parlare dell’M5S come di un soggetto politico unitario e unito, ma anche una parte del Pd e di LeU. Il ministro dello Sviluppo Patuanelli è stato il primo a parlare senza remore di nazionalizzazione. Ma il ministro dell’Economia Gualtieri è contrario, lo stesso Conte, sempre a porte chiuse, avrebbe escluso l’ipotesi e Salvini ha già lanciato una sorta di campagna preventiva: «Sono contrario a nazionalizzare. Chi paga?». Proprio i costi sono l’elemento che anche i nemici di Salvini al governo considerano proibitivo.

Il momento della verità arriverà la settimana prossima, nel nuovo incontro fra Conte e Mittal. Dovrebbe svolgersi domani mattina, potrebbe slittare di 24 ore. Forse non sarà risolutivo ma almeno chiarirà se una trattativa è possibile o se la multinazionale ha deciso di fare i bagagli. Il secondo momento della verità, quello all’interno della maggioranza, arriverà forse subito dopo. Se sarà trattativa, affrontare la mina scudo fiscale diventerà inevitabile.

IN OGNI CASO IL CONTO della vicenda resterà salatissimo, e non solo perché resterà l’obbligo di trovare una soluzione per l’Ilva. Molto più che da una manovra resa facile dall’arrendevolezza della Ue e che comunque non si sta rivelando affatto in discesa, il governo nato per caso è stato messo alla prova da una vera e imprevista difficoltà, come è inevitabile che capiti a ogni governo. Non si può dire che l’esito del test sia rasserenante.