A una sentenza definita da tutti «storica», da parte del governo sono seguite solo dichiarazioni imbarazzate. Il giorno dopo le pesanti condanne inflitte dalla corte di assise di Taranto per il danno ambientale e i morti provocati dall’Ilva, chi è da poco tornato a guidare il gruppo siderurgico non è in grado di dare alcuna certezza sul futuro sia ai cittadini di Taranto che agli 11 mila lavoratori sparsi per l’Italia.

Al silenzio di Draghi – il presidente del consiglio non si è mai espresso sul tema – hanno fatto da contraltare le dichiarazioni dei ministri responsabili: quelle di prammatica di Giorgetti e quelle indecise di Cingolani. Unite da una sola certezza: il futuro di Taranto dipende dal pronunciamento del Consiglio di stato che a giorni si pronuncerà sul sequestro dell’area a caldo deciso dal Tar della Puglia e contestato dall’attuale proprietà.

MA PUÒ UN GOVERNO che sarà azionista di maggioranza e che non hai risposto alle sollecitazioni delle istituzioni locali sul tema ambientale comportarsi in questa maniera? Le tanti parti in gioco in questa ingarbugliata partita sono concordi nel criticare «la palla buttata in tribuna». Se da una parte gli ambientalisti chiedono di chiudere subito l’area a caldo e preparare una riconversione ecologica che non contempli la produzione di acciaio, i sindacati criticano «l’atteggiamento inspiegabile di Giorgetti».

L’impressione di entrambe le parti è infatti che il governo non sappia che pesci pigliare, in attesa – come sempre in queste settimane – della linea dettata da un Draghi che non ha ancora scelto. Un’impressione confermata dal fatto che il pronunciamento del Consiglio di Stato non sarà per niente risolutivo sia in un senso che nell’altro. Se il grado di appello amministrativo – come la maggior parte dei commentatori pensa – riaprirà l’area a caldo di Taranto la stessa rimarrà sotto la spada di Damocle della sentenza di lunedì che ha sancito lo stesso provvedimento, anche se la sua esecutività è bloccata fino a sentenza definitiva. Allo stesso modo se il Consiglio di stato a sorpresa confermasse il sequestro deciso dall’ordinanza del sindacato di Taranto Melucci, questo non impatterebbe sul resto della produzione che potrebbe comunque andare avanti, seppur limitata, paradossalmente spingendo ad un’accelerazione verso una riconversione tramite altre tecnologie.

ECCO SPIEGATO PERCHÉ LA SCELTA del Consiglio di stato non risolverà un bel niente al governo. E per dirla con il segretario confederale della Cgil Emilio Miceli «uno Stato che si rispetti non può far ricadere sulla giurisdizione un problema così grave, mentre il dramma di tutta questa lunga vicenda sta proprio nel fatto che i governi non hanno preso decisioni perdendo tempo e lo hanno fatto solo inseguendo con ritardo le decisioni della magistratura», sottolinea Miceli, che come tutto il sindacato è fra coloro che chiede di accelerare sulla bonifica e sull’acciaio verde.

Il fronte sindacale è stato diviso sulla battaglia giudiziaria – se Fiom e Cgil erano parti civili nel processo e l’Usb è il più avanzato nel chiedere la riconversione, Fim Cisl e Uilm all’inizio hanno criticato la magistratura tarantina – ora tutti si uniscono nel ricordare il precedente negativo della bonifica di Bagnoli: «Bisogna tenere in vita lo stabilimento: se l’aria a caldo si dovesse fermare, questo bloccherebbe anche il risanamento ambientale», sottolinea Rocco Palombella, segretario generale della Uilm e ex operaio Ilva a Taranto.

D’ALTRO CANTO GLI ESEMPI europei di riconversione dell’acciaio citati dagli ambientalisti – Peacelink, Liberi e Pensanti e Verdi – hanno tutti un punto in comune: nella Ruhr e a Bilbao non si produce più acciaio e i posti di lavoro sono stati convertiti nel turismo.
La differenza con queste riconversioni di fine millennio scorso sta nel fatto che il governo Draghi potrà utilizzare i fondi del Recovery Fund e – come rivendicato dal ministro Cingolani – «c’è un miliardo per fare subito la trasformazione dell’altoforno più grosso».

Ma da qui parte la domanda ancora più difficile e senza risposta: quanti posti di lavoro ci saranno per una produzione con forni elettrici e gassificazione? Non gli attuali 8 mila. Di certo servono prepensionamenti.