C’è grande tensione negli stabilimenti ex Ilva, oggi gestiti in affitto dalla multinazionale ArcelorMittal. A riaccendere gli animi è stata la decisione dell’azienda di fermare le attività dell’intera area a freddo di Taranto, e a cascata di stoppare anche quelle dei siti liguri di Novi e Cornigliano le cui attività dipendono dal sito pugliese e dagli stabilimenti francesi anch’essi a rischio stop. Fermata che i sindacati metalmeccanici Fim, Fiom e Uilm hanno definito incomprensibile, a fronte del fatto che appena pochi giorni addietro, era stata la stessa multinazionale ad annunciare la ripartenza di alcuni impianti; oltre che inaccettabile perché la conseguenza è stata il ritorno in cassa integrazione di centinaia dipendenti in tutti i siti produttivi.

SOLO SU TARANTO, il rallentamento della produzione, oggi al minimo tecnico, ha impedito il rientro dalla cassa integrazione di 630 lavoratori, oltre ad altri 1.000 mandati in cig tra cui gran parte addetti alle funzioni di manutenzione centrale, con un ulteriore ridimensionamento dei livelli di sicurezza per l’insieme dell’impiantistica, denunciano i sindacati.

A Novi Ligure le organizzazioni sindacali hanno indetto uno sciopero ad oltranza, dopo il mancato accordo sulla cassa integrazione guadagni ordinaria per Covid, con il blocco ai cancelli delle merci in uscita. Tensione altissima anche a Genova, dove l’azienda ha negato un’assemblea nel piazzale interno per motivi legati all’emergenza sanitaria e ampliato la cig per Covid a circa 200 lavoratori. I rappresentanti sindacali liguri, avevano proposto all’azienda di sospendere la procedura perché giudicata ‘illegittima’ in quanto manca la firma sul decreto ‘Rilancio’ del presidente della Repubblica. Per questo i sindacati hanno presentato un esposto in Procura contro l’azienda e uno all’Inps: stessa procedura avviata a Taranto dalla Fiom. E sempre a Taranto è previsto per venerdì un presidio delle organizzazioni sindacali all’esterno della Prefettura.

LE DECISIONI DELL’AZIENDA hanno sorpreso i sindacati anche per un altro motivo. La ripartenza era stata infatti annunciata a fronte di nuovi ordini: l’azienda ha però chiarito che si tratta di una condizione momentanea legata a un rallentamento delle stesse aziende che, a tutt’oggi, non hanno ritirato gli ordinativi precedentemente assunti.

Tutto questo però, non accade adesso per caso. A prescindere dalla grave crisi in cui versa da anni il mercato dell’acciaio, oltre a quella dell’ex Ilva in perdita da anni, e dallo tsunami provocato dalla pandemia che ha bloccato l’economia mondiale, le motivazioni sono ben altre e ben più gravi.

Il così detto “Accordo di Modifica” siglato il 4 marzo fra i commissari straordinari dell’Ilva e ArcelorMittal, che pose fine alla causa civile in corso tra le parti e il governo, prevedeva come primo step che entro il 31 maggio si sarebbe definito l’accordo sul piano occupazionale e il conseguente ricorso alla cassa integrazione straordinaria, sapendo che quella ordinaria è in scadenza al 30 giugno. Nell’accordo si parlava di un’occupazione pari a diecimila unità al 2025: ma sino ad allora sarà necessario un forte utilizzo della cig e forse anche di almeno 1.500 esuberi.

NELL’ACCORDO ERA INOLTRE specificato che la gestione della vertenza spettava al Governo, totalmente disinteressatosi della vicenda, che avrebbe dovuto convocare la parti per tempo. Soltanto ieri il ministro del Lavoro, Cinzia Catalfo e il ministro allo Sviluppo economico Stefano Patuanelli, hanno convocato le parti per lunedì 25 in call conference.

C’è un altro dato fondamentale. L’accordo di marzo prevedeva l’investimento nel capitale da parte del Governo, da regolarsi in un contratto da sottoscrivere entro il 30 novembre, pari almeno al debito residuo relativo all’originario prezzo di acquisto dei rami d’azienda ex Ilva. Ad oggi non è chiaro quale sarà il soggetto (Invitalia? Cassa depositi e prestiti?) che entrerà in AmInvestCO, la società veicolo con cui ArcelorMittal ha effettuato l’operazione Ilva. Né quanto capitale sarà ceduto (si parla di un 40-45%) e a quanto ammonti la cifra da investire. Qualora l’accordo tra le parti non sarà raggiunto, ArcelorMittal potrà svincolarsi col recesso versando una “caparra penitenziale” di 500 milioni.

ALTRO CAPITOLO, seppur non meno importante, il nuovo Piano Ambientale. Che prevede una produzione a ciclo ibrido, con l’utilizzo del preridotto di ferro da utilizzare in parte negli altiforni e in parte in un forno elettrico. Preidotto che dovrà essere realizzato attraverso la costruzione, sempre da parte dello Stato, di un mega impianto il cui costo sfiora il miliardo di euro.

È giunto il momento dunque che il governo esca allo scoperto e chiarisca tutti i dettagli di una vicenda sin troppo ambigua.