Sant’Antonio compie «miracoli» perfino nelle urne. Nel 1999 con la prima sindaca: Giustina Destro alla testa del civismo catto-berlusconiano. Nel 2014 con il trionfo del leghista Massimo Bitonci, già sindaco di Cittadella e capogruppo in Senato. E Padova torna a votare proprio due giorni prima della tradizionale processione del «santo senza nome»: c’è chi prega e promette ex voto, sollecitando la grazia di un altro ballottaggio sorprendente.

Sono sette gli aspiranti alla fascia tricolore con un vero esercito di candidati (per lo più «civici») a un seggio in consiglio comunale. Ma Padova sembra snobbare le elezioni anticipate, frutto della «congiura» con cui nella notte dell’11 novembre scorso davanti al notaio 17 esponenti fra centrosinistra e delusi da Massimo Bitonci rassegnarono le dimissioni da palazzo Moroni, aprendo le porte al commissariamento. In città tiene banco l’ultima puntata della «cricca della logistica» con arresti imbarazzanti, senza dimenticare la cronaca approdata in televisione: il delitto Noventa e le parrocchie a luci rosse.

Politicamente, la partita si pretende spianata. Bitonci, 51 anni, invoca la conferma del mandato a furor di popolo, sostenuto dalla coalizione che da FdI arriva al Carroccio passando per l’anemica Fi e la lista personalizzata. Farà di nuovo il pieno di consensi, ma non abbastanza da vincere direttamente al primo turno.

Conta proprio sul ballottaggio la «santa alleanza» che sostiene Sergio Giordani, 63 anni, già presidente del Calcio Padova, imprenditore della grande distribuzione commerciale, dimessosi da presidente di Interporto al terzo mandato proprio per fare il sindaco in base all’oroscopo altrui. Lo sostengono gli ex An di Maurizio Saia, i «transfughi» berlusconiani, gli alfaniani del sottosegretario Barbara Degani, il Pd sprovvisto di leader e gli ex Ds di Flavio Zanonato. Un mix quanto meno bizzarro. Da un mese il candidato è sempre affiancato dal medico di fiducia.

I sondaggi esigono il braccio di ferro Bitonci-Giordani. Tuttavia, Padova non nasconde la simpatia nei confronti degli arancioni di Coalizione Civica o dei grillini di Simone Borile che hanno in dote, insieme, almeno un quarto delle intenzioni di voto. Tutti gli altri corrono verso apparentamenti, più o meno realistici: il sussidiario Rocco Bordin convertito al Fare di Flavio Tosi; l’imitatore del doge Brugnaro, Luigi Sposato; Maurizio Meridi di Casa Pound.

Intanto lo specchio di Padova riflette un’anima nera inossidabile. E la città si scopre provinciale, con un’identità smarrita nella nostalgia, prigioniera dei «salotti buoni», sempre più vecchia (non solo demograficamente) e con una visione del futuro annichilita dalla miopia di chi ha divorato risorse, territorio, speranze. Di certo, Padova non è più la «capitale del Nord Est». Anzi, arranca dietro Verona ed è stretta nella morsa della crisi anche da Vicenza e Treviso. Conta meno di 210 mila residenti, con il record di densità veneto (2.266 abitanti per chilometro quadrato) e oltre il 12% di stranieri. Padova ogni mattina deglutisce l’esercito di foresti: studenti e universitari fuori sede, utenti di tre ospedali più familiari dei pazienti, professionisti pendolari. Di sera regna il deserto del centro storico o dei palazzoni in vetrocemento: nel buio prende vita a est il quadrante invisibile della logistica formato caporalato e dei mercati d’ogni tipo.

«Negli anni 70 e 80, nonostante tutto, qui s’innovava: con il professor Volpato che inventa Cerved, la più grande banca dati europea; con la Facoltà di Medicina capace di importare dagli Usa le tecniche più sofisticate; con il Cuamm che diventa l’Ong italiana per antonomasia in Africa e perfino con le ’casseforti’ di Carisparmio e Antoniana che scommettevano su quelle che ora chiamano start up – commenta sconsolato un vecchio notabile democristiano -. La Padova del Duemila si è ridotta alla scenografia che nasconde le macerie, succursale dei pirati di provincia in cui coltivare piccole rendite di posizione, senza più uno straccio di classe dirigente degna di questo nome».

La decadenza fa il paio con la politica. Padova è reduce dal ventennio di Zanonato, padre-padrone del vecchio Pci quanto del primo Pd. Un’eredità più che discutibile. Il rapporto Ispra sul consumo del suolo certifica 4.558 ettari di territorio divorato dal cemento: Padova spicca fra i primi 20 Comuni d’Italia; area “monocentrica satura” come Milano. È il “ciclo del mattone” che ha trasformato l’ex collegio dei Gesuiti in un residence di superlusso: operazione che il “giro” di EstCapital Sgr aveva pianificato per almeno 9,6 milioni di euro di ricavi. Padova preferisce rimuovere con perfetta ipocrisia. Eppure in via Belgio 26 c’è la sede di Mantovani Spa, sinonimo dello scandalo Mose in laguna e della “piastra” di Expo 2015: il presidente ora è Carmine Damiano, ex questore di Treviso.

Nessuno fiata nemmeno sulla gestione della Torre della Speranza, fondazione che potrebbe “esplodere” come il San Raffaele, con identiche conseguenze sul “sistema della sussidiarietà”. Nemmeno la campagna elettorale sviscera l’agonia di Padova che, di fatto, ha solo due Grandi Fabbriche: l’Università e la sanità pubblica. Il Bo, sulla soglia degli 8 secoli, è governato dal magnifico Rosario Rizzuto e dal nuovo dg Alberto Scuttari. Spende 220 mila euro all’anno per trasformare il centro congressi di CL in aule di Medicina e prepara bandi “profilati” da identica vocazione.Con 1,4 miliardi di euro di valore annuo della produzione la “cittadella della salute” (Azienda ospedaliera, mai integrata con l’Ateneo) è stata il regno dei fedelissimi di Galan, e non solo. Patrimonio pubblico cannibalizzato a furia di appalti, esternalizzazioni, bilanci fuori controllo, assicurazioni su misura del broker.

È il punto cruciale per il futuro di Padova: far finalmente saltare i giochi di potere e gli affari concertati dietro le quinte. Ma nelle sale storiche del Caffè Pedrocchi si continua a far finta di niente, aspettando il miracolo del Santo.