Se Matteo Renzi mena come un fabbro contro la sua minoranza interna, «la sinistra masochista che vuole sempre perderee», nella minoranza interna del Pd sta per arrivare al redde rationem. E cioè il tempo del chiarimento finale fra i «responsabili», ovvero quelli che fanno la stampella sinistra del governo, e il gruppo dei dissenzienti che sulla scuola si stanno già orientando a votare contro il testo del governo.

Succederà dopo le regionali, quando con ogni probabilità ci saranno nuovi addii al Pd. Fra i dem per l’area critica tira un’ariacci. Ma è durissimo anche il mestiere dei responsabili, il gruppo di ex bersianiani che, per fare un esempio, alla camera ha accettato di votare il jobs act giurando, come aveva fatto l’ex Fiom Cesare Damiano, di essere «soddisfatto per la nuova formulazione dell’art.18» dello statuto dei lavoratori, salvo poi essere smentito dallo stesso Renzi che martedì ha rivendicato di aver «abolito l’art.18» come «hanno fatto Schroeder e Blair».

Ieri mattina il gruppo dei «responsabili», che sarebbero una quarantina, si è riunito alla camera per ribadire la collocazione «non renziana» ma la disponibilità a non far mancare i voti al governo. Assente il ministro dell’agricoltura Maurizio Martina, impegnatissimo sul fronte Expo ma anche determinato a buttarsi alle spalle l’ex padre politico Pier Luigi Bersani perché «la sfida di Renzi è la nostra sfida». Presenti invece Cesare Damiano, Matteo Mauri, Enzo Amendola, Micaela Campana, Dario Ginefra e i sottosegretari Teresa Bellanova e Umberto Del Basso De Caro. All’uscita alle agenzie hanno spiegato che rivendicano «di agire in continuità con i due principi ispiratori di Area riformista: responsabilità e autonomia. C’è uno spazio nel Pd per chi non è renziano acritico o antirenziano cronico, è uno spazio di politica e buonsenso che si può esercitare sui diversi provvedimenti del governo». Sulla ddl scuola «lavoriamo perché sia migliorata il più possibile», ma sia chiaro da subito che «quel lavoro in parte è stato già fatto in commissione e che la riforma della scuola non deve diventare l’oggetto di una discussione strumentale alle dinamiche interne al Pd». La precisazione è cruciale perché nell’area dei dissenzienti c’è invece chi ha fissato nel disegno di legge la propria linea del Piave. È il caso di Stefano Fassina, che ormai tutti danno in uscita dal Pd proprio sull’onda delle contestazioni degli insegnanti e degli studenti.

A parole i responsabili dicono che cercheranno di ricomporre la frattura con i quasi quaranta deputati che non hanno votato l’Italicumo. «Ferma restando», spiega un deputato, «la linea di responsabilità che ci porta a dire no allo scontro frontale e sì al dialogo costruttivo». Altra partita però, a Montecitorio, è quella dell’elezione del nuovo capogruppo, dopo le dimissioni di Roberto Speranza. Il candidato ’naturale’ è Ettore Rosato, da sempre riferimento dell’ala renziana. Ma il voto è segreto, e ora che le minoranze hanno perso la presidenza, il loro sì sarà «responsabile» ma non gratis.

Più complicato il puzzle dem di Palazzo Madama. Dopo le regionali si riaprirà la partita delle riforme costituzionali sulle quali Renzi dice di voler trattare. Lì la minoranza è formata da un nucleo di 24 senatori che, almeno al momento, sono fermamente decisi a cambiare il nuovo senato e ne propongono l’eleggibilità. Se Renzi volesse assicurare comunque la maggioranza alle riforme, dovrebbe rimpiazzarli con un nuovo gruppo di «responsabili» ex Fi. Che però dovrebbe avere quegli stessi numeri.