Tutte le arti, e soprattutto quelle figurative, sono familiari a Proust e ne accompagnano la vita, le opere, l’epistolario; ma solo la musica ha per lui un potere evocativo in grado di generare pagine fino a un attimo prima insospettate alla mente. Poche battute musicali sono in grado di scatenare, sulla pagina di Proust, associazioni a volte acrobatiche, di fare riemergere ricordi, di dare luogo a schermaglie mondane sulla parabola ascendente o declinate del musicista via via in questione. «Dentro di noi, in effetti, da ogni idea, come da ogni crocevia in una foresta partono tante strade diverse che, nel momento in cui meno me l’aspettavo, mi trovavo davanti un nuovo ricordo. Il titolo della melodia di Fauré, Il Segreto, mi aveva portato a…» e così via: il Je qui n’est pas moi del primo volume della Recherche parte in una catena di associazioni mentali potenzialmente senza fine.

INTERIORIZZATA, più o meno consapevolmente, la messa in dubbio della sovranità dell’Io sui nostri spazi psichici, poi la dissoluzione della materia nel colore della pittura impressionista e, ancora, la dilatazione del tempo a misura dei vissuti affettivi teorizzata da Bergson, l’orecchio dei personaggi di Proust è pronto a sintonizzarsi con la ribellione di Debussy a costrizioni temporali che pretendano di imporsi al suo flusso di coscienza: «… doveva venire il giorno in cui, per breve tempo, Debussy sarebbe stato dichiarato fragile quanto Massenet, e i sussulti di Mélisande abbassati al rango di quelli di Manon. Teorie e scuole, come i microbi, si divorano a vicenda, assicurando con la loro lotta la continuità della vita. Ma quel tempo non era ancora venuto.»
Un implicito atto di fiducia chiude questo passaggio proustiano di Sodoma e Gomorra, e arriva fino a noi, portando echi che insieme a altre risonanze troveranno una loro speciale concentrazione al teatro Argentina, nella serata odierna ideata da Andrea Lucchesini per la Filarmonica.
Affidati alla voce recitante di Edoardo Pesce, passaggi della Recherche si alterneranno a brani tratti da opere di alcuni tra i musicisti prediletti da Proust – Chopin, Franck, Fauré, Saint-Saëns, Hahn – eseguiti dal violinista Marco Rizzi, dal violoncellista Giovanni Gnocchi e da Roberto Cominati al pianoforte.

BASTEREBBE L’EPISTOLARIO a testimoniare l’intimità di Proust con l’ascolto musicale, ma anche i suoi carnet abbondano di appunti su opere e concerti ascoltati, commentati, tradotti in propositi: per esempio di trasferire le emozioni indotte da una esecuzione del Carnaval di Schumann alla Sonata di Vinteuil, o di riversare la commozione indotta da Manon al pianto del narratore della Fugitive; oppure si risolvono nel trasferire la predilezione per Wagner (probabilmente introdotto nella società del tempo soprattutto grazie ai concerti della domenica organizzati da Lamoureux) al titolo del primo volume (le Fanciulle in fiore sono un prelievo dal Parsifal), mentre persino il minimo motivo gioioso delle campane viene dal finale della Symphonie di Franck.
«Spesso – annota Proust nel primo volume della Recherche – quando si tratta di una musica un po’ complicata che si ascolta per la prima volta, non si sente niente. Ciò che per la prima volta fa difetto non è la comprensione, ma la memoria». Apparentemente criptica, questa affermazione è tuttavia forse rischiarabile, ex post, dalla considerazione di Charles Rosen su ciò che a volte disorienta della musica contemporanea: non quanto di nuovo vi viene introdotto ma ciò che della tradizione vi viene sottratto, non gli azzardi innovativi ma la frustrazione conseguente alla smentita delle aspettative più o meno subliminalmente introiettate dalla tradizione musicale.