L’intervista del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti riassume il profilo politico-economico del governo a trazione sovranista. Insieme al programma da realizzare, ancora fumoso nel perimetro strettamente contabile, si esumano rischi di ordine speculativo nazionali e internazionali. D’altronde si avvicinano concrete scadenze sul piano economico e la strada del cambiamento si deve misurare con la fattibilità delle promesse giallo-verdi. Il ragionamento del tessitore leghista parte dalla convinzione che in autunno inizieranno a concretizzarsi progetti come il reddito di cittadinanza, la modifica delle legge Fornero e la flat-tax. Proprio su quest’ultima Giorgetti afferma che, se verrà approvata nella sua versione da «cura da cavallo», almeno una parte delle risorse dovranno essere trovate, tradotto significa che il suo impatto immediato non sarà così benefico per i conti pubblici come l’ideologia che la sostiene teorizza. Una sfumatura di pragmatismo dunque. Ciò che risulta più significativo, però, è il richiamo al rischio della «speculazione dei mercati», pronta a punire l’Italia per l’opzione politica delle ultime elezioni. Qui entra in campo tutta la retorica dei nazional-populisti, spesso non disdegnata neppure dai rappresentanti di provata fede liberale. Quando le cose vanno male si parla di mercati «popolati da affamati fondi speculativi che scelgono le loro prede e agiscono», il solito accostamento dei mercati al branco di lupi assetato di sangue. Giorgetti scomoda i riferimenti passati, l’Italia del 1992 o la caduta di Berlusconi nel 2011. Il mercato non viene riconosciuto nei suoi meccanismi di funzionamento di fondo, meccanismi che si basano anche su investimenti straordinariamente redditizi poi derubricati come rischiosi. I mercati fuggono dagli investimenti con la stessa velocità con cui li hanno raggiunti. È il loro funzionamento fisiologico, altro che speculazione. L’Italia del 1992 viveva una profonda crisi politica ed economica e fu trascinata nella crisi anche sul versante monetario dalle debolezze della sterlina. Nel 2011 non vi fu nessun complotto, ma la fuga dai titoli pubblici di un paese che appariva poco credibile sul versante dei conti pubblici a fronte di scelte austeritarie e di mancanze di garanzie a livello continentale. Oggi il contesto è meno rischioso, ma non è certo consolidato. Nonostante l’intervento salvifico della Bce (che un altro pensatore economico della Lega come Claudio Borghi ha perentoriamente escluso che possa finire) le incertezze causate dai dazi e dal protezionismo lasciano l’Italia in uno stato di profonda debolezza. In questo senso i programmi giallo-verdi, a seconda della loro radicalità, potrebbero fare da detonatore. Fattori interni coniugati con altri esterni, come la crisi della lira turca, hanno dato vita ad affanni del sistema bancario nostrano che potrebbero immediatamente scivolare sulla sostenibilità del debito pubblico. Nella logica complottista, invece, Giorgetti parla del nostro debito in mano a stranieri, senza sapere che a partire dalla crisi il debito sovrano è stato abbondantemente riportato entro i confini, ma tant’è il suo richiamo nazional-populista fa appello all’ampio risparmio privato degli italiani necessario a fronteggiare i presunti attacchi speculativi. La medesima logica che ha abbracciato Erdogan in questi giorni invitando i turchi a disfarsi di valute straniere e a acquistare la lira per sostenerla contro gli speculatori. Proposte che possono risultare sterili e un po’ contro-natura, se la prospettiva è quella di perdere denaro senza un progetto politico convincente. Detto ciò il problema che resta aperto è quello di come dare risposte alla società italiana, stremata dalla crisi, senza scivolare nei dettami dei mercati, nel loro rigore, sovente richiamato da chi ha governato prima, e inventarsi obiettivi popolari fuori dalle compatibilità proprie dei mercati.